martedì 27 dicembre 2011

I cani e i lupi

I cani e i lupi di Irène Némirovsky, Adelphi

Némirovsky, il romanzo straziato dalla paura
Ci sono romanzi che sollevano un polverone appena pubblicati e poi cadono nel dimenticatoio, altri che mantengono un certo “magnetismo”, anche se riproposti molti anni dopo la loro prima uscita. Questo ci parrebbe essere il caso di I cani e i lupi di Irène Némirovsky (Titolo originale: “Les chiens et les Loups”, pp.234, euro 18,50), l’ultimo romanzo pubblicato in vita dall’autrice, prima della deportazione ad Auschwitz che Adelphi, intento a ripubblicare l’opera omnia di questa donna dalla penna geniale – di cui soprattutto ricordiamo il capolavoro Suite francese - ha portato in Italia per noi nella bella traduzione di Marina di Leo. Un polverone all’epoca, dicevamo, addirittura con accuse di antisemitismo e persino di captatio benevolentiae per paura delle leggi razziali, tanto che alla prima edizione dello scottante romanzo la scrittrice premetteva un’avvertenza in cui ribadiva la propria intenzione di descrivere il popolo a cui apparteneva così com’era con i suoi pregi e i suoi difetti, persuasa che “in letteratura non vi siano argomenti tabù”. Certo è che gli ebrei venuti dall’ Est, “fotografati” dall’impietosa penna némirovskyana, non ci sembrano portatori di sentimenti edificanti. Ma qui, quello che conta è la valenza del romanzo e la sapiente capacità della sua ipercritica autrice di proporci un plot avvincente, popolato da personaggi che ci lasciano in cuore un segno profondo ed inquietante. In sintonia con buona parte della sua scrittura, anche questa volta la Némirovsky è indirettamente autobiografica – anche se in forma più simbolica che letterale -, riproponendoci le atmosfere, gli stati d’animo, raccontandoci le peripezie di Ada, bambina in Ucraina e poi ragazza a Parigi. Nei suoi anni infantili la vediamo giocare col cuginetto Ben, mentre nelle strade, all’esterno, freme il rombo insanguinato del pogrom che porterà i due bambini, abitanti della parte bassa della città, quella destinata ai poveri, a rifugiarsi presso parenti spocchiosi della parte alta, quella dei privilegiati. Fatale dunque l’incontro con Harry il bambino ricco, ben vestito, paradigma dell’aristocratico benessere a lei negato. Questo privilegiato cugino dai riccioli bruni e dai grandi occhi splendenti, l’affascina in maniera irresistibile, tanto che – dopo il matrimonio con Ben – diverrà la sua amante, incapace di sottrarsi a un fato che la sovrasta. Impossibile riassumere una trama punteggiata da grovigli interiori, ritmata dal gioco contorto fra l’alternanza dei buoni e cattivi, dove cani sembrano essere i ricchi abitanti della città alta - quelli che godono dell’invidiato benessere - e lupi ci appaiono gli avidi cugini poveri, determinati all’inseguimento di coloro che ritengono essere più fortunati. Passione, desiderio e nostalgia del mondo ucraino, lasciatosi alle spalle, abita fino all’ultimo, queste pagine drammatiche, straziate da sentimenti contrastanti.
Grazia Giordani
Pubblicato sabato 12 aprile 2008 ne: L'Arena, Il giornale di VIcenza e Bresciaoggi

Grazia Giordani

domenica 11 dicembre 2011

Recensione pubblicata nel 2008 in Arena, giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Un folgorante capolavoro
di Grazia Giordani
Pochi invero sono i romanzi capaci di conservare intatta la capacità di emozionare il lettore ottant’anni dopo la prima pubblicazione. Questo è il destino di David Golder, opera prima di Irène Némirovsky (Adelphi, traduzione di Margherita Belardetti, pp.180, euro 16) che continua ad affascinare, proseguendo il destino di tutta la scrittura dell’autrice russa, rifugiata a Parigi in anni giovanili, morta ad Auschwitz, di cui già abbiamo ammirato lo splendido Suite francese, pubblicato e pluripremiato postumo.
Siamo nella capitale francese nel 1929 quando Bernard Grasset ha appena finito di leggere il manoscritto di David Golder, ricevuto per posta, senza il mittente. Folgorato dalla bellezza del romanzo, l’editore dovrà ricorrere ad un annuncio sul giornale per rintracciare la ventiseienne autrice, elegante, briosa, appartenente alla haute di una classe sociale che vive nel lusso e nella spensieratezza. E Grasset resterà stupito dalla giovinezza di una penna che sa scrivere col piglio consumato di uno scrittore di razza, capace di dare persino un taglio cinematografico alla sua pagina che ispirerà registi come Julien Duvivier negli anni Trenta e Gregory Ratoff vent’anni dopo, tanto è suggestiva la vicenda di Golder, l’ebreo di Odessa, emigrato giovanissimo che – dopo esser divenuto molto ricco in campo internazionale – ora si trova in cattive acque. “Era un uomo di più di sessant’anni, enorme, con le membra grasse e flaccide, gli occhi color dell’acqua, vivacissimi e opalescenti… il viso devastato, duro, come plasmato da una mano rozza e pesante” . Così la Némirovsky ci descrive il suo protagonista, attingendo anche a reminiscenze personali, visto che la sua famiglia originaria di Kiev, apparteneva a banchieri plutocrati, rifugiatisi in Francia dopo la rivoluzione di ottobre. Subito ci appare spietato questo Golder, una macchina da soldi senz’anima, pronto a indurre, senza scrupoli, al suicidio il socio Simon Marcus. Il destino di Golder è quello di rincorrere il danaro calpestando chiunque, attorniato dalla diffidenza e disistima di chi lo circonda. La moglie Gloria lo tradisce spudoratamente, mantenendo amanti a spese del marito (sembra che l’autrice si sia ispirata alla vita della madre, quella Fanny non precisamente amata), raggirato dalla figlia Joyce, pronta a tutto per estorcergli moneta. Moglie e figlia non avranno pietà del suo stato di salute della sua angina pectoris, interessate solo a soddisfare i loro vizi. Una sottolineatura speciale merita la crudeltà di Gloria quando istilla nella mente del marito il dubbio sulla sua paternità. Quella Joyce tanto viziata e in tutto accontentata, potrebbe dunque esser figlia dell’amante? E l’autrice dà segno di ben conoscere quel mondo fatuo e corrotto che sta descrivendo, poiché lei stessa ha vissuto i suoi anni giovanili in un’atmosfera da belli e dannati alla Fitgerald Scott – tra la capitale francese e Biarritz -, prima di sposare il banchiere russo Michel Epstein. Il matrimonio porterà serena maturità alla brillante Irène, un’ebrea “dissidente”, inutilmente convertita al cattolicesimo nella speranza di salvare la pelle.
Dunque, David Golden è un romanzo autobiografico, crudele e spregiudicato, nello stile prosciugato che l’autrice ha mantenuto anche in Suite francese, in cui la Némirovsky guarda al microscopio il suo mondo di appartenenza, fatto di prospettive materialistiche e fatue, il mondo degli affari sulla pelle del prossimo, spesso degli ebrei nuovi ricchi il cui unico obiettivo sembra essere quello di diventare ancora più ricchi. I sentimenti sembrano non esistere, relegati in secondo piano. Umanità e solidarietà sono utopie. La sopraffazione la fa da padrona, umiliando e schiacciando chiunque, anche se nel finale del romanzo un soprassalto di sentimento si fa spazio fra tanto cinismo, visto che l’incallito ebreo, devastato dalla malattia, si avventura nell’ ultima impresa finanziaria per salvare la giovane Joyce, pur nel dubbio che si tratti veramente di sua figlia. Un estremo bagliore di luce, nel buio di tanto cinismo.

sabato 10 dicembre 2011

Conversazioni su Irène Némirovsky

Conversazioni su Irène Némirovsky
Irène Némirovsky
(Kiev 1903-Auschwitz 1942)

Per rendere veramente viva – agli occhi di chi ci ascolta – la vita di un’autrice che ci ha lasciati, non ancora quarantenne, negli agitati anni Quaranta, credo sia indispensabile indagare ed approfondire la radice storica entro cui è inserita, come una perla nel suo castone.
Ad aiutarci, in questo nostro intento, ritengo basilare il saggio di Olivier Philipponat e Patrick Lienhardt.
Questo duetto di autori ha condotto un documentato e puntiglioso viaggio dentro il percorso vitale della grande scrittrice, perlustrando le pieghe più nascoste di un animo tanto contraddittorio, al punto che ci illudiamo di vedere Irène fisicamente, non solo per il ricco corredo fotografico, ma anche per la descrizione fisica (« giovane, sottile, piccola, bruna, tipo spiccatamente ebraico, non bella. Gli occhi neri, velati dalle palpebre pesanti, esprimono solo una sorta di dolcezza maliziosa. I capelli, tagliati corti, incollati alla testa un po’ allungata, ne accentuano la piccolezza. Le labbra carnose si aprono in un sorriso franco. I modi sono di un ‘eleganza disinvolta, frutto di un’educazione impeccabile».
Nasce a Kiev nel 1903 – Irène – e a quell’epoca, la capitale dell’Ucraina, un tempo – nell’882, quando iniziò la dinastia degli zar - prima capitale della Russia, era un fulgente giardino di una pienezza vegetale incantevole che profumava l’aria in maniera inebriante.
La chiamarono Irma, per via della sinagoga e Irina come la nipote dello zar. In casa la chiamavano Iroçka. Nasce asmatica e quindi non può godere dei profumi della sua terra.
I genitori di Irène erano diametralmente opposti fra loro.
Anna, la madre, era raffinata ed autoritaria. Alta, ben fatta, con un portamento regale, ma lasciva, bugiarda e molto venale. Leggendo le opere della N. vedremo come sarà prototipo di figure di donne disdicevoli, non certo eroine positive.
Siamo in epoca storica in cui gli zar tendevano a ghettizzare gli ebrei.
Caterina II tendeva a confinarli, emarginandoli. Alessandro II, più aperto e liberale, aveva preso a concedere privilegi almeno agli ebrei di classe più elevata, ma nel 1881 fu assassinato, ricacciando il mondo giudeo-russo nella pena dell’esclusione.
Conscia di questa apartheid, Anna stava ben attenta a scegliersi gli amanti fra i gentili. Proibiva, inoltre, che in casa sua si parlasse yddish o si cucinassero piatti tipici della religione ebraica.
Aveva ricevuto dai genitori una educazione perfetta. Premiata con medaglia d’oro al ginnasio di Kiev, suonava il pianoforte. Adorava il lusso in tutte le sue forme. Frivola, golosa, tendeva alla pinguedine.
Leonid Némirovsky era di estrazione molto più modesta della moglie. Abbandonato dal padre, dovette cominciare presto a provvedere ai bisogni della famiglia. Ragazzo scaltro e poi uomo senza scrupoli, aveva fatto tutti i mestieri, vagabondando per Mosca e attraversando la Russia fino al Pacifico, tenendosi su a forza di alcol.
Agli occhi di Irina il padre sarà sempre la personificazione dell’audacia per lei tipica del genio ebraico, capace di piegare il destino alla propria orgogliosa volontà.
Che cosa aveva a che fare questo Leonid di così bassa estrazione con la distinta Anna Margulis, allevata dai genitori nella venerazione della cultura francese?
L’audacia di Leonid aveva incuriosito la viziata ragazza blasée.
Dandosi al commercio e, soprattutto giocando in borsa, l’ebreo dalla pelle olivastra, era diventato ricchissimo.
Inoltre, l’Ucraina era diventata un vero Eldorado industriale, poiché in dieci anni la produzione di petrolio e di acciaio aveva raggiunto un’espansione spettacolare. L’ampliamento della rete ferroviaria e la messa in funzione della transiberiana, facevano dell’estremo oriente una novella America.
La speculazione favorirà il sorgere di una classe borghese prospera che si appoggiava al nascente Partito costituzionaldemocratico (KD), dei “cadetti”fedele alle nuove istituzioni, ma incline a riforme liberali di stampo occidentale. Tra le file dei cadetti contiamo anche Leon Némirovsky, preoccupato di guadagnare, prosperare, innalzando un baluardo dorato fra sé e la sua infanzia.
Preoccupato di offrire agi di ogni tipo ed adeguata istruzione alla figlia, non faceva troppo caso alle scappatelle della moglie.
C’era solo una cosa che l’affascinava veramente: l’oro. La sete terribile dell’oro lo consumava.
Il gergo di casa erano dunque cifre borsistiche e questo linguaggio ritmò l’infanzia di Irène, mentre la generosità di Leonid si spinse a mantenere agli studi nipoti poveri e persino ad alloggiare amanti della volubile Anna-Fanny.
«Gli uomini sono lupi – usava dire a Iroçka -. Quando sei forte, hanno paura di te e ti blandiscono, ma non appena cadi, ti divorano».
Dopo l’assassinio dello zar Alessandro II – siamo nel 1882 - i pogrom e le persecuzioni e carneficine a danno degli ebrei s’infittirono.
Anna è ossessionata dallo spettro del ghetto e nel contempo dal dramma verticale che si è creato tra gli ebrei ricchi, gli eletti, e i miserabili, i paria, ritenuti gli esclusi.
E i Némirovsky lottano per essere tra gli eletti.
Il 1912 fu un anno particolarmente fortunato per Leonid divenuto presidente del consiglio della banca commerciale di Veronel e amministratore della banca unione di Mosca. Incominciò a produrre oro come una miniera.
Irina cresce nell’agio sfrenato del padre, nell’avarizia egoistica della madre, nella cultura, nel rimpianto snobistico di una vagheggiata Francia.

Il 1917 è un anno fatale.

L’intento dei russi, scontenti della dominazione zarista, è quello di “distruggere il vecchio mondo”.
Chi ha avuto la grazia di visitare la San Pietroburgo dei giorni nostri, la mitica città fondata da Pietro il Grande nel 1703, lo zar che fu un groviglio di contraddizioni e paradossi, resterà stupito dalla descrizione che ci lascia la Némirovsky negli anni della rivoluzione.
Ma andiamo per gradi, tornando alla mitica città di allora, con quel monarca che sapeva essere allegro e gentile, terribile nei suoi accessi di collera, imprevedibile e deliberatamente spietato, come in occasione delle torture che egli stesso praticava agli avversari politici in camere segrete. Da vero autocrate russo si considerava il sovrano assoluto di sudditi privi di qualsiasi diritto. Infallibile al punto che ogni suo desiderio andava soddisfatto all’istante e a qualunque prezzo. Dicono che buona parte delle sue nevrosi e delle sue follie abbiano tratto origine dall’aver visto, negli anni infantili moscoviti, molti suoi parenti infilzati dalle micidiali picche dei ribelli..
Eppure, Pietro amava la Russia e il suo popolo ricco di talenti, la sua lingua colorita, i suoi riti, la sua cucina. Ma della Russia odiava il fango, la pigrizia, le ruberie e odiava la vecchia capitale, Mosca, dove per un soffio era scampato alla morte e che identificava come scenario di continue congiure ordite contro di lui dai soldati ribelli.
Provocatore, l’amore per i grandi gesti segnò tutte le sue azioni.
Con la fondazione di San Pietroburgo, Pietro voleva stupire non solo la Russia, ma tutto il mondo civile e ci riuscì.
Si ispirò all’Olanda, immaginando che la sua città si sarebbe librata come “un’aquila”, sarebbe stata una fortezza, un porto, un immenso cantiere navale, un modello per tutta la Russia, oltre che una vetrina per l’Occidente.
L’architetto francese Leblond, autore del piano generale della città, fu picchiato dallo zar e di lì a poco morì.
Avevano paura dello zar architetti ed artisti stranieri: italiani, tedeschi, olandesi che partecipavano alla fondazione della “Nuova Roma”.
Tasse e balzelli ingenti si rovesciarono sulle finanze dei cittadini. Trasferì a Pietroburgo tutti i muratori del paese, col divieto di costruire case di pietra, eccetto che nella sua costruendo città. (p.30 Il mito di San Pietroburgo).

Nell’ottobre- novembre del 1917 – a causa dell’uccisione dello zar Nicola II e di tutta la sua famiglia servi e cani compresi – i Némirovsky subirono persecuzioni, dovendosi rifugiare temporaneamente a Mosca.
Trovo particolarmente interessante il raffronto tra la San Pietroburgo di Pietro il Grande, in buona parte ritornata oggi agli antichi splendori e la magica città del ’17, vista dagli occhi di Irina che così ce la descrive: .
«Tutte le strade pubbliche erano innaffiate di vino e ho visto con i miei occhi una via lavata con lo champagne».
Si raccontano casi di annegamento e asfissia nelle cantine. Anche gli scalini d’ingresso del palazzo Smolnij, sede del governo, erano coperti di uno strato di eccellente bordeaux ghiacciato Un tanfo di vinaccia e di vomito aleggiava sulla città. Ma soprattutto le bevute favorivano le uccisioni a sangue freddo in un espandersi di crudeltà infinite»
.
Nel 1918 i Némirovsky furono costretti a lasciare San Pietroburgo, rifugiandosi in Finlandia, come altri quarantamila russi entro il 1922.
Il peregrinare di Irina prevede altre tappe: Stoccolma e poi l’adorata Parigi.
Qui Irina che si chiamerà definitivamente Irène, conduce una vita dorata (balli, flirt, trasgressioni) e Anna-Fanny dà libero sfogo al suo animo trasgressivo, ingioiellata più che mai, al volante di un’auto lussuosa, dono di Léon il marito banchiere sempre più assorbito dalla corsa agli affari.
È il 1921 l’anno in cui Irène inizia a buttar giù di notte i suoi primi testi di prosa (già le conoscevamo – nel periodo finlandese – qualche ingenua poesia).
In Nonoche au vert dscrive già la fama equivoca dei ricchi di Biarritz, descrizione che diventerà al vetriolo in David Golder. A Questo suo primo libro, dove la protagonista è una piccola prostituta, farà seguito Nonoche au Louvre, ma questi sono ancora primi tentativi di scrittura, forse un po’ goffi, pur dotati di quell’humour di cui la Nostra fu capace di esprimere per tutta la vita.
Nonoche chez l’extralucide uscì sul quindicinnale “Fantasio”, una rivista ardita, quasi per soli uomini.
Ventenne, ottiene dal padre il dono di un appartamento parigino ammobiliato. I suoi flirt si fanno frenetici, insistenti ed è oggetto di uno stupro.
Venticinquenne, Irène sfoga nell’Ennemie tutto il suo odio verso la madre, insensibile, vanitosa, gaudente e malvagia.
Gli anni che corrono tra il 1925 e il 1929 sono di basilare importanza per la formazione di Irène.
Michel Epstein, un brunetto di bassa statura, ma appartenente a una delle più antiche famiglie giudeo-russe, inizia a corteggiarla.
Miša aveva il mento aguzzo, lo sguardo gioioso e il sorriso furbo di suo padre, docente universitario a Mosca e San Pietroburgo, nonché amministratore delegato di un potente istituto bancario, una delle prime cinque in Russia.
La rivoluzione del 1917 aveva portato anche gli Epstein a rifugiarsi in Francia.
Michel non era forse, all’epoca, un buon partito, poiché Irène, coi sui romanzi guadagnava già il doppio del futuro marito, ma era un uomo vivace, piacevole che sapeva apprezzare la vita.
Irène e Michel provenivano, comunque, dallo stesso ambiente, quello dei finanzieri ebrei sospinti sino a Parigi dalla rivoluzione bolscevica. La loro unione venne celebrata con matrimonio civile a Parigi il 31 luglio del 1926, in regime di separazione dei beni. Irène portava alla sinistra un diamante di fidanzamento e alla destra, secondo l’uso russo, mise l’anello nuziale. Il giorno successivo, in sinagoga venne celebrato il matrimonio religioso.
I giovani sposi presero dimora in una bella abitazione della Rive Gauche parigina .Avevano al loro servizio due domestiche, una cameriera, una cuoca basca. Nel salotto di questa casa, deliziosamente arredata, Irène, adagiata sul morbido sofà, prende appunti per il suo grande romanzo, in attesa del ritorno di Michel dal lavoro. Una vita serena, agiata, piena di soddisfazioni.

Al cadere degli anni Trenta, la Némirovsky pubblica il primo dei suoi romanzi più importanti il David Golder, lo sbalorditivo romanzo che le darà la fama più grande in vita. Qui un banchiere rude e venale, odiato, corteggiato o deriso dai suoi, ritroverà nell’ora della morte, le promesse della sua infanzia miserabile e la fede dei suoi padri rimasta viva e palpitante sotto l’involucro dorato. L’autrice lo ha scritto e riscritto, lavorandoci per oltre quattro anni. Concepito a Biarritz, di fronte allo spettacolo di tutti quei ricconi, fannulloni, squilibrati e viziosi, di tutto quel mondo eterogeneo di finanzieri, di banchieri equivoci, di donne alla ricerca del piacere e di sensazioni nuove, di gigolò, questo romanzo è pieno di allegorie anche sull’anima ebraica, come hanno rilevato i più acuti critici dell’epoca. David Golden esprime tutta l’avidità e insieme tutta la sazietà dell’ebreo quando si abbandona per intero al mondo: vuole tutto pur sapen
do che tutto è niente. David Golder, chiaramente ispirato al padre Leonid-Léon è il fabbricante d’oro, il Sansone ribelle che spezza le catene dorate legate ai suoi polsi da una moglie avida e un a figlia volubile, entrambe schiave del vizio. Ultimata la scrittura, il primo lettore del romanzo fu Michel. Venne quindi inviato ad André Foucault, redattore capo delle “Oeuvres Libres” che le consigliò di snellirlo, accorciandolo di una cinquantina di pagine.
Non intendendo ragione, spedì il manoscritto a Bernard Grasset.
Nel frattempo, nacque Denise, la sua amatissima primogenita, a cui diede tutto l’affetto che a lei dalla madre era stato negato.
Grasset, sbalordito dalla bellezza forte del romanzo, fece un annuncio sul giornale per trovare l’autore del manoscritto, firmato semplicemente Epstein.
L’editore – Bernard Grasset - resterà meravigliato, conoscendo l’autrice qualche mese dopo il parto. Non si sarebbe certamente aspettato una così esile e raffinata signora, capace di una scrittura cruda e di un gergo borsistico. Se n’era fatta un’immagine ben diversa.
Grasset considera questo romanzo tutta una filosofia dell’amore, dell’ambizione, del denaro. Per la sua potenza e per lo stesso argomento ricorda Papà Goriot e ciò nonostante è originale. Raffronti vengono fatti dai critici persino col capolavoro di Tolstoj La morte di Ivan Ili’c vista la similitudine con le agonie dei due protagonisti. In ambedue i romanzi ci sono mogli che non si possono rassegnare nel veder sparire gli emolumenti economici con la morte dei mariti.
Il romanzo, osannato dalla critica, è in libreria poco prima di Natale, al prezzo di 15 franchi.
Due grandi registi Nozière per il teatro e Duvivier per una versione cinematografica, si occuperanno di questo inquietante, rivoluzionario romanzo. Nascono contestazioni e liti tra i due registi che mortificheranno molto l’Autrice del romanzo.

Irène ama intervallare le sue scritture, riempiendo i suoi quaderni di appunti di note e rimandi.
Quindi, fra due capitoli del David Golden, scriverà Le Bal, ancora un romanzo di condanna per il comportamento smodato e disaffettivo della madre.
Abbiamo ancora una famiglia di ebrei, arricchitisi in Borsa, avidi di prestigio mondano-sociale dentro cui s’inquadra una nuova trasposizione del conflitto adolescenziale di Irène, per cui Antoinette.è perversa in quanto figlia di Rosine.

Nel maggio del 1931 esce Les mouches d’automne in cui la metafora si riferisce a quei russi di Neully e Passy che, tormentati dal rimpianto della loro terra, languono in modesti alloggi ammobiliati come fanno le mosche quando, in autunno, rimaste intrappolate nelle case, ronzano a lungo prima di cadere sfinite.
Ingannata dalla nebbia che crede sia la prima neve, Tat’ jana Ivanovna, la vecchia dolce njanja scende a passeggiare per strada, ma è travolta da un acquazzone che la fa sprofondare nelle acque gelide della Senna.
Ora è la volta nel 1932 di L’affaire Courilof, forse scritto anche per placare il dolore della morte del padre di Irène.
Si presenta come la confessione del protagonista Léon che – spacciatosi per medico – ha l’incarico di infiltrarsi nella cerchia del sanguinario Kurilov, detto il Pescecane, ministro della Pubblica istruzione, per ucciderlo.
Costretti a convivere, l’assassino e la sua vittima, finiscono per lo stimarsi a vicenda. Siamo di fronte, ancora una volta, a un declino fisico, a un disgregamento del potere, a un crepuscolo delle certezze.
Nel 1934 esce Pion sur l’échiquier (Pedina sullo scacchiere) che subirà stroncature dalla critica.
Uscirà in seguito Vin de solitude, ancora una testimonianza del pessimismo ebraico dell’Autrice..

Tra il 1935 e il 1942, in buona sostanza, la Némirovsky ha scritto nove romanzi, una biografia e ben trentotto racconti.

Michel guadagna 41.800 franchi e Irène, con la sua scrittura, percepisce il triplo del marito, mentre l’ingorda madre tiene tutto per sé dopo la morte del plutocrate marito.. Ma gli Epstein non abbassano il tenore di vita, non rinunciano alla servitù, ai medici più alla moda. Anzi, cambiano casa, trasferendosi in un’abitazione più lussuosa.
Irène e il marito non riescono ad ottenere la cittadinanza francese, nonostante le amicizie e gli appoggi prestigiosi a cui ricorrono. E’ la piccola Denise la prima della famiglia a guadagnare questo privilegio.

Jezabel è la storia di un’orchessa che – metaforicamente – divora la propria figlia per conservare intatto sino alla fine il suo “potere di donna”. Esce prima a puntate e poi in forma di romanzo.
Jezabel è un’allegoria dell’arroganza in cui più che un affresco a vasto raggio, incontriamo il ritratto femminile di una “femme fatale”, una donna che fin dagli anni della sua prima giovinezza ha posto l’accento sul potere della bellezza estetica e sulla voluttà che ne deriva. La bellezza raggiunge il parossismo di un irrinunciabile vizio, quasi una fatale condanna.
Gladys Eysenach non ha occhi che per se stessa e si cura soprattutto con belletti, massaggi e artifici, per la conservazione di un aspetto esteriore che non denunci la sua reale età anagrafica. Gli uomini saranno dunque intercambiabili pedine nelle sue mani, anche quelli che parrebbero aver avuto più consistente peso nella sua volubile esistenza – vedasi Dick, il secondo marito – che afferma sopra tutti di rimpiangere.
Accusata di aver ucciso il suo giovane amante nella spensierata Parigi anteguerra dove i ricchi sembrano vivere in un mondo dorato sopra le righe (lo stesso mondo della Némirovsky, prima della sua terribile fine), dove tutto sembra scintillare di luci troppo forti e dove le coscienze appaiono essere fatue e prive di sostanziose consapevolezze (quasi si vivesse dentro un dipinto di Mario Cavaglieri!), Gladys – in pieno contrasto con le aspettative degli astanti, non chiederà di essere assolta.
Ancora molto bella, tanto che sembra il tempo l’abbia sfiorata appena, mentre il clima d’attesa nell’aula di tribunale si fa sempre più gonfio di gossip – prestando l’estro alle invidiose presenti di fare un ripasso del folto carnet dei suoi numerosissimi amanti – sembra nascondere una verità che sfugge al pubblico goloso di scandali, sovraeccitato e impaziente di impadronirsi dei suoi pruriginosi segreti.
Misteri che verranno svelati solo al lettore attento che sa leggere fino in fondo il peccaminoso dramma di una donna vissuta nella costante menzogna al fine di nascondere la sua reale età anagrafica. Menzogna che la spingerà a falsificare documenti, ringiovanire la figlia al fine di ringiovanire se stessa e soprattutto negare la possibilità alla figlia di amare liberamente e di essere madre in maniera normale, senza sotterfugi.
Gladys, disperatamente ostinata nel suo artificioso giovanilismo, non potrebbe mai accettare di essere nonna. Questo è il suo maniacale dramma. Questa è la sua fissazione che la spingerà a sacrificare la figlia, che la indurrà a calpestare quanti la attorniano, determinata – sessantenne – a mantenere il rapporto con un uomo che per età potrebbe esserle figlio e spingendola poi all’omicidio di quello che parrebbe essere un suo giovanissimo nuovo amante.

Deux è il nuovo romanzo di Irène in cui l’amore può trasformarsi in amicizia, restando spesso “ricordo dell’amore”.
In realtà, le bozze e gli abbozzi dei suoi romanzi sono tutte tracciate, e in qualche modo concatenate, in quello che lei chiama scherzosamente Il Mostro, ovvero un insieme di appunti con continui rimandi l’uno all’altro.

In Espoirs si parla della vita di una piccola modista russa che vive a Parigi soltanto dell’elemosina delle clienti.

Nel 1938 incombono le leggi razziali e i Némirovsky sono pieni di debiti..

Scrive Enfants de la nuit che prenderà il titolo definitivo di Les Chiens e les loups resuscitando il ghetto di Kiev. Ci sono romanzi che sollevano un polverone appena pubblicati e poi cadono nel dimenticatoio, altri che mantengono un certo “magnetismo”, anche se riproposti molti anni dopo la loro prima uscita. Questo ci parrebbe essere il caso di I cani e i lupi di Irène Némirovsky (Titolo originale: “Les chiens et les Loups”, pp.234, euro 18,50), l’ultimo romanzo pubblicato in vita dall’autrice, prima della deportazione ad Auschwitz che Adelphi, intento a ripubblicare l’opera omnia di questa donna dalla penna geniale – di cui soprattutto ricordiamo il capolavoro Suite francese - ha portato in Italia per noi nella bella traduzione di Marina di Leo. Un polverone all’epoca, dicevamo, addirittura con accuse di antisemitismo e persino di captatio benevolentiae per paura delle leggi razziali, tanto che alla prima edizione dello scottante romanzo la scrittrice premetteva un’avvertenza in cui ribadiva la propria intenzione di descrivere il popolo a cui apparteneva così com’era con i suoi pregi e i suoi difetti, persuasa che “in letteratura non vi siano argomenti tabù”. Certo è che gli ebrei venuti dall’ Est, “fotografati” dall’impietosa penna némirovskyana, non ci sembrano portatori di sentimenti edificanti. Ma qui, quello che conta è la valenza del romanzo e la sapiente capacità della sua ipercritica autrice di proporci un plot avvincente, popolato da personaggi che ci lasciano in cuore un segno profondo ed inquietante. In sintonia con buona parte della sua scrittura, anche questa volta la Némirovsky è indirettamente autobiografica – anche se in forma più simbolica che letterale -, riproponendoci le atmosfere, gli stati d’animo, raccontandoci le peripezie di Ada, bambina in Ucraina e poi ragazza a Parigi. Nei suoi anni infantili la vediamo giocare col cuginetto Ben, mentre nelle strade, all’esterno, freme il rombo insanguinato del pogrom che porterà i due bambini, abitanti della parte bassa della città, quella destinata ai poveri, a rifugiarsi presso parenti spocchiosi della parte alta, quella dei privilegiati. Fatale dunque l’incontro con Harry il bambino ricco, ben vestito, paradigma dell’aristocratico benessere a lei negato. Questo privilegiato cugino dai riccioli bruni e dai grandi occhi splendenti, l’affascina in maniera irresistibile, tanto che – dopo il matrimonio con Ben – diverrà la sua amante, incapace di sottrarsi a un fato che la sovrasta. Impossibile riassumere una trama punteggiata da grovigli interiori, ritmata dal gioco contorto fra l’alternanza dei buoni e cattivi, dove cani sembrano essere i ricchi abitanti della città alta - quelli che godono dell’invidiato benessere - e lupi ci appaiono gli avidi cugini poveri, determinati all’inseguimento di coloro che ritengono essere più fortunati. Passione, desiderio e nostalgia del mondo ucraino, lasciatosi alle spalle, abita fino all’ultimo, queste pagine drammatiche, straziate da sentimenti contrastanti.

Per l’autrice i guai razziali si fanno sempre più pressanti.
Indesiderata in Russia, priva di cittadinanza francese, non è in odore di santità nemmeno in Italia dove gli editori chiedono ragguagli sulla sua identità israelita.
Autorevoli raccomandazioni cercano dall’alto di farle ottenere la cittadinanza francese assieme a Michel.Ma l’impresa si è fatta impossibile.
Allora, Irène tenta la via della religione, della conversione religiosa.


Recatasi in montagna con le figlie (nel frattempo era nata anche Elizabeth), ha conosciuto un giovane parroco a cui – appena trentottenne – sono stati assegnati importanti incarichi ecclesiastici.
Padre Roger Bréchard aveva sulle prime pensato di andare a fare il missionario in Africa. Quindi, si è dato allo scoutismo.
Un parroco di campagna semplice ed intelligente.
Si è propensi a credere che Irène stia recitando la commedia del cristianesimo per sottrarsi alla maledizione che perseguita gli ebrei, essendo ormai passibile di espulsione.
Il suo battesimo sarà dunque un’abiura per salvare la pelle o una sincera conversione?
La Nèmirovsky sa bene che per i fanatici razzisti un ebreo convertito resta comunque ebreo. Quindi, perché?
Il 2 febbraio 1939 nella cappella dell’abbazia Sainte-Marie, situata nel ventiseiesimo arrondissement, Irène, Michel, Denise ed Elisabeth Epstein verranno regolarmente battezzati dalle mani di mons.Ghika, padrino padre Bréchard.
Si verifica un intenso scambio epistolare con mons. Ghika, sempre pieno di scuse da parte di Irène che adduce indisposizioni o incapacità di rendere visite promesse o di recarsi a messa nei giorni comandati.
La stesura di Les Chiens et les loups avviene in perfetta concomitanza con la conversione.
Michel si ammala gravemente e Irène si rivolge alle preghiere di mons.Ghilka.
Le pratiche per la naturalizzazione francese continuano ad essere negate e rinviate. Si adatta a lavoretti alla radio, piccole trasmissioni su scrittrici straniere per mettere insieme qualche soldo.
Fortunatamente, la vendita di Deux, il romanzo d’amore, le rende bene.

Scoppia la guerra nel settembre 1939

È dal 1938 che Irène torna periodicamente a Issy-l’Êvêque per dimenticare fatiche e guai nella pace di quel paesino della Borgogna, rannicchiato tra valli e foreste. Qui si concede lunghe passeggiate e scrittura en plein air.

In questi tempi si riaccende in Irène un forte interesse per la Russia, per cui ricorda la guerra civile del 1918.
La lontananza da Denise ed Elizabeth – affidate ad Issy ad un’amica di fiducia - e le lunghe giornate solitarie, dopo il rientro parigino, rinfocolano le sue nostalgie di passato.
Di questi tempi scrive La femme de don Juan .


Ed ecco il nostro racconto, La moglie di don Giovanni. Nessuna ambientazione sei-settecentesca: siamo nei primi decenni del Novecento. Clémnce racconta di quando era giovane e lavorava come camerista presso la madre della piccola Monique, quella signora che tutti compiangevano per i ripetuti tradimenti del marito e tutte invidiavano per la fede nuziale che la legava allo stesso, entusiasmante marito. Lei si comportava come una moglie irreprensibile e come una madre attenta, anche se non particolarmente disposta ad elargire ai figli quel calore che le negava il consorte. La Némirovsky l’ha tratteggiata con poche pennellate incisive: una donna immobilizzata tra la consapevolezza del suo poco fascino e l’orgoglio cui la obbligava la sua casta. Silenziosa, quasi invisibile, sempre all’altezza del proprio compito.
Ma qualcosa la scosse dal torpore: una relazione di Henry più seria del solito, il pericolo di abbandono del tetto coniugale. Tutti sapevano che l’uomo era quasi disposto a lasciare moglie, figli e patrimonio per rischiare una nuova vita con una giovane baronessa. Tutti erano talmente accecati dal suo fascino prorompente da non accorgersi mai di quello che covava la moglie. Se la psicologia di questa donna si rivela pian piano nella sua complessità e nei suoi abissi, quella del marito – pur con la sua allegria, la sua generosità, la sua bellezza – rimane piatta: un bel soprammobile.
La Némirovsky, attraverso al voce e i ricordi di Clemènce, gioca a ribaltare le parti, allo smascheramento della rispettabilità borghese e dei suoi valori, a destare interesse proprio lì dove la società vede grigiore: in questa donna remissiva e brutta. Il destino è in agguato: una donna di tal fatta era disposta ad accettare di tutto, tranne che si ridesse di lei. Ed è proprio quello che farà il marito durante una gita in macchina, con esiti fatali che non sveleremo.
Chissà se la signorina Monique si ricorda di quel periodo e dei suoi drammatici fatti? Probabilmente sì, ma di sicuro non conosce i suoi retroscena, quello che successe veramente. Clémnce non ha finito di raccontare: i segreti sono ancora molti in questo melodramma dello smascheramento, e vale veramente la pena di leggere il racconto per scoprirli.
La lunga lettera è l’eredità di Clémence, il lascito finale di una donna che sta morendo di cancro a un’altra donna che ha da poco scoperto la maternità. L’unica eredità possibile, potremmo dire: quella della verità. Una verità svelata attraverso il filo del femminino, quel filo che consente di condensare qualsiasi distanza spaziale e temporale per mettere tutto a nudo. Senza ipocrisie, senza teorie.
Un piccolo gioiello. La moglie di don Giovanni sfrutta una storia classica e si articola sul noto triangolo lui-lei-l’altra per scardinarli dall’interno e cambiarli completamente di segno. Tratteggia tutta una classe sociale e i suoi protagonisti con una straordinaria capacità di sintesi. S’impadronisce delle letterature francese e russa per costruire un racconto che gioca mirabilmente con i piani temporali e con le generazioni. E, infine, emoziona in poche pagine.

I tempi si son fatti sempre più difficili per i coniugi Némirovsky.
Michel è obbligato a far da interprete ai tedeschi, vista la sua perfetta conoscenza della lingua.
Irène ha l’ingenuità di rivolgersi personalmente al Maresciallo Pétain, ritenendosi protetta dalla sua fama di scrittrice.
“Inutile dire che non mi sono mai occupata di politica, avendo scritto solo opere puramente letterarie. Inoltre, sia sui giornali stranieri che alla radio mi sono impegnata ala massimo per far conoscere e amare la Francia.
Non posso credere, signor Maresciallo, che non si faccia alcuna distinzione tra gli indesiderabili e gli stranieri onorevoli che, se hanno ricevuto dalla Francia un’ospitalità regale, sono consapevoli di aver fatto ogni sforzo per meritarla.
Auspico dunque che la vostra alta benevolenza includa me e la mia famiglia in questa seconda categoria, che ci venga concesso di risiedere liberamente in Francia e che io possa continuare a esercitare la mia professione di romanziera”.

Naturalmente, non ricevette risposta.

Per tutto il mese di agosto lavora alla stesura di Jeunes et vieux.

Comincia a concepire la stesura del suo capolavoro, una specie di sua Guerra e pace, scrivendone la prima parrte Tempête. Cui farà seguito Dolce. Altre tre parti avrebbero dovuto completare la sinfonia
Questo è l’atto di nascita di Suite francese il romanzo fiume ancora anonimo, cui avrebbe dovuto far seguito una terza parte Captivité.

Tutta la famiglia, esclusa la figlia minore, dovrà indossare la stella gialla..

Irène cerca in tutti i modi che le venga concesso un rientro a Parigi da Issy.

Il 13 luglio del 1942 secondo la testimonianza della figlia Denise che abbiamo sentita parlare alla radio, nella trasmissione Fahrenait di qualche anno fa, colpi inesorabili alla porta di casa preannunciano la fine.
“Non capivo niente, sentivo un calpestio di stivali e i miei genitori che tornavano nella loro stanza, il tutto in un silenzio pesante” – ricorda Denise – a cui viene permesso di abbracciare la madre.
Irène ha appena il tempo di preparare un’affrettata valigia. E dice alle figlie che parte per un viaggio di qualche giorno.
Michel è distrutto.
Alla russa, osservano il silenzio.
Niente lacrime.
Irène viene portata in un a gendarmeria a 10 Km da Issy.
Ha dimenticato occhiali da lettura e stilografica.
Non è più una madre, una moglie, una scrittrice russo-francese.
È soltanto un’ebrea.
Verrà internata nel campo di concentramento di Pithiviers nel Loiret.
E poi l’attende Auschwitz, ovvero l’inferno.
Michel smuove mari e monti appellandosi a politici e prelati, raggiungendo una disperazione al limite della follia.
Molti tentano di aiutarlo, ma invano.
Il 9 ottobre del 1942 si ripete il copione identico.
Padre e figlie vengono condotti alla prefettura di Autun.
Qui c’è un ufficiale tedesco che – impietosito – dice alle due bambine: “vi do 48 ore per sparire”.
La valigia col manoscritto della prima parte di Suite francese viene affidata alle bambine che l’apriranno solo sessant’anni dopo.
Michel subisce vari trasferimenti nei carceri francesi.
Gli vengono tolti gli 8.500 franchi che ormai non servirebbero più a nulla.
Julie Dumot trattiene ancora qualche giorno le bimbe ad Issy.
I gendarmi tedeschi si presentano a scuola a prelevare Denise che la maestra si appresta a far nascondere dietro il letto di sua madre, vedova della Grande Guerra, che nessuno avrebbe avuto il coraggio di disturbare.
Julie scappa a Bordeaux con le bambine e riceve dall’amico Sabatier il compenso in danaro dell’ultimo racconto pubblicato da Irène.
A 10 Km da lì partono 36 convogli verso la morte
Il 28 agosto 1944 Bordeaux viene liberata.
Le bambine con la fida Julie si presentano regolarmente alle stazioni parigine, sperando nel ritorno dei genitori che si ostinano a non credere morti.
Solo la nonna, l’egoista Fanny, risponderà ad una richiesta di aiuto di Julie: “Io non ho nipoti!”
Sabatier farà pubblicare tutto il possibile dell’amica, compreso La chaleur du sang.
(Ci sono temi che mulinano nella mente degli scrittori come un insistito refrain, quasi un tormentone cui non possono sottrarsi.
E questo è successo anche a Irène Némirovsky - nata a Kiev nel 1903 e morta ad Auschwitz nel 1942 - l'autrice nota al grande pubblico per il best seller «Suite francese» (un milione e 500 mila copie vendute in tutto il mondo).
Come buona parte degli scrittori di ceppo ebraico, basterebbe pensare ad Arthur Schnitzler o a Stefan Zweig, solo per fare due nomi, anche Irène è attratta dai meandri oscuri della psiche, dove abitano i grovigli morbosi del cuore.
Quindi, il nucleo forte de «Il calore del sangue» (Adelphi, pp155,euro11, traduzione di Alessandra Berello, con una nota di Olivier Philipponat e Patrik Lienhardt) si trova in buona parte degli scritti dell'autrice da sempre consapevole di come "la vita sia forgiata a colpi di sangue", visto che già nel 1931 ne «Les Mouches d'automne» aveva fatto dire alla invecchiata protagonista. "Mi ricordo ancora del sangue giovane che mi ardeva nelle vene" e nel 1935 ne «Le vin de solitude»: "Non posso cambiare il mio corpo, spegnere il fuoco che arde nel mio sangue".
Scritto fra il 1937 e il 1938 e ambientato a Issy- l'Evêque, poco meno di mille abitanti, in Borgogna, nell’ Arrondissement d’Autun (quello stesso paesino del Morvan in cui Irène cercherà rifugio con la famiglia e dove sarà poi arrestata) «Chaleur du sang» è stato ritrovato dai biografi e pubblicato in Francia nel 2007.
Fresco di stampa ce lo propone ora Adelphi che sta curando l'opera omnia dell'autrice.
Questa volta teatro dell'azione non è più l'alta borghesia ebraica in cui la scrittrice è cresciuta, o l'ambiente dei ghetti dell'Europa orientale, ma il piccolo mondo agreste della provincia francese.
Qui tutto parrebbe essere terso, pulito, persino insulso, oseremmo dire, visto che incontriamo l'inappuntabili e agiate famiglie che stanno organizzando il matrimonio di bravi figli.
L'io narrante è un viveur ormai invecchiato, lupo solitario in quel paesaggio boschivo, fertile e ricco di misteriosi stagni. Sembrerebbe che nulla dovesse accadere nel tran tran campagnolo di quelle serene vite, ma la penna soavemente crudele della Némirovsky ci invia criptati messaggi, acuminate avvisaglie che ci inducono a scoprire come sotto la levigata vernice di armoniosa serenità agreste, ribolle quel torrido "calore del sangue" che condurrà al reiterato peccato e al delitto, riservandoci un epilogo a sorpresa, secondo la miglior cifra némirovskyana.)

Fanny Némirovsky è morta nel 1972 – novantasettenne - . Era vissuta agiatamente del tutto incurante delle nipoti.
La sorella Viktoria è morta a Mosca – novantaquattrenne – l’unica a ricordare la vita anteriore di Iročka.
Elizabeth Gille, editrice, traduttrice e scrittrice è morta nel 1996. Aveva dedicato alla madre una struggente biografia Le Mirador.
Denise Epstein non immaginava che – pubblicando Suite francese avrebbe restituito sua madre all’amore e alla gratitudine dei lettori.

COMUNICA UNA SENSAZIONE STRANA, UN LIBRO CHE CI ARRIVA DAL PASSATO. Siamo abituati alle voci sempre presenti dei grandi scrittori che ci hanno accompagnato per secoli con le loro parole, ma un tono mai sentito in precedenza, così distinto, chiaro e forte, crea l’impressione di una presenza vicino a noi e insieme lontana, che ci fa vivere nel suo tempo che è diverso dal nostro.
Una storia straordinaria dietro ad un libro straordinario, la “Suite francese” di Irène Némirovsky, nata a Kiev da famiglia ebraica nel 1903, fuggita con i genitori nel 1918 prima in Finlandia, poi in Svezia e infine in Francia, dove sposò Michel Epstein nel 1926. Durante la guerra Irène Némirovsky fu deportata prima a Pithivier e poi ad Auschwitz, dove morì nel 1942.
Le sue due bambine riuscirono a salvarsi, anche se sempre in fuga, nascoste da persone compassionevoli. Non abbandonarono mai la valigia in cui la madre aveva messo i suoi manoscritti, senza avere però la forza di leggerli, meno che mai quando la guerra finì e loro iniziarono ad aspettare ogni giorno un ritorno impossibile, sui marciapiedi dei treni che scaricavano pallide ombre.
Solo mezzo secolo dopo avrebbero letto, con la lente di ingrandimento, quelle carte, decifrando i caratteri che parevano file di formiche sui fogli. Si trattava dei due primi romanzi di quella che doveva essere come una sinfonia in cinque parti, “Tempesta di giugno” e “Dolce”, in cui Irene Némirovsky racconta la guerra in Francia. Non la guerra dei soldati, non i retroscena politici della guerra, ma la guerra vissuta dalla gente comune che si trova a fronteggiare situazioni nuove ed estreme, ed ognuno reagisce secondo la sua natura, tirando fuori il meglio o (forse più spesso) il peggio di sé. O semplicemente mostrandosi semplicemente come è.
La “Tempesta di giugno” è lo sconvolgimento provocato dall’occupazione di Parigi da parte dei tedeschi: i parigini fuggono, in un esodo che ricorda quello dei moscoviti in “Guerra e Pace” che abbandonano la città in mano di Napoleone. E non è un caso che proprio Tolstoj venga spesso nominato nelle annotazioni che la Némirovsky faceva nelle pagine a fianco di quelle in cui scriveva il testo del romanzo e che sono riportate in appendice, “rileggere Tolstoj. Indispensabili le descrizioni, ma non storiche”, perché “la guerra finirà e tutta la parte storica sbiadirà”. Una massa di persone che si muove come un fiume in piena, e l’attenzione della scrittrice si ferma su alcuni personaggi, i Péricand, ricchi borghesi che mettono in salvo mobili, argenteria, biancheria e partono con il seguito di domestici, il collezionista a cui importano solo i suoi preziosi oggetti, lo scrittore Corte e i suoi manoscritti, il banchiere e la sua amante.
Ma le strade sono ugualmente intasate per tutti, manca la benzina, gli alloggi per riposarsi lungo il percorso della fuga sono pieni, gli alimentari scarseggiano. Non c’è scampo allo sguardo attento e impietosamente rivelatore della Némirovsky che ritrae meschinità ed egoismi. C’è solo la coppia di impiegati, i Michaud, che mantiene la propria dignità e umanità e riappare in un ruolo secondario nel secondo romanzo, “Dolce”: una storia più intima e circoscritta, l’amore tra la francese Lucile e il tenente tedesco che ha requisito la sua casa. Un rapporto mai consumato in cui prevale la dolcezza, appunto, un’intesa di sentimenti e di inclinazioni, un’affinità spirituale che induce a dimenticare che il tedesco è il nemico di oggi e di ieri.
Non possiamo che rimpiangere che Irène Némirovsky non abbia potuto scrivere gli altri tre romanzi che aveva in mente e che avrebbero completato la sinfonia letteraria.

Sinfonia in due tempi

spesso chi si occupa di critica letteraria tende a parlare di “capolavoro”. Ma nel caso di “Suite francese” di Irene Némirovsky (Adelphi, pp.415, euro 19) le lodi sono più che meritate, perché ci ritroviamo tra le mani un romanzo di rara bellezza, nell’elegante traduzione di Laura Frausin Guarino, impreziosito dalla postfazione di Myriam Anassimov .
Pubblicato postumo in Francia, a cura della figlia Denise Epstein che per ben sessant’anni aveva conservato il manoscritto della madre, vergato in finissima scrittura, chiosato con appunti e note della stessa autrice , questo prodigioso romanzo, giunge a noi in Italia a un anno di distanza. Scritto in presa quasi diretta con gli avvenimenti narrati dei primi bombardamenti su Parigi, con la fuga precipitosa degli abitanti atterriti per l’arrivo dei tedeschi nella capitale francese nel giugno del 1940, la narrazione ci porta al centro di una storia tanto straordinaria quanto struggente. Il progetto iniziale della scrittrice era quello di ritmare le sue pagine nella struttura di una sinfonia per cui – apprendiamo dalle sue stesse note che appaiono in Appendice – avrebbe dovuto avere un andamento in cinque movimenti, ma noi possiamo leggerne solo i primi due, rammaricandoci della forzata “mutilazione”, perché la sfortunata autrice ebbe il drammatico destino di essere arrestata e poi deportata a Auschwitz..
Nata a Kiev, figlia di un banchiere ebreo, la Némirovsky già aveva conosciuto il dramma della fuga ai tempi della rivoluzione russa del 1917. In Francia aveva trovato l’amore – sposandosi nel ’26 con Michel Epstein – e il successo di affermata scrittrice. Madre di due figlie, conduce un’esistenza piacevole e agiata finché il destino non le riserva il fatale epilogo. Sarà dalle mani del padre, in seguito vittima della stessa fine, che le due piccole figlie riceveranno il manoscritto con le due prime parti del romanzo. Vivranno nascoste, affidate a una affezionatissima tata per tutto il periodo bellico. È stata molto toccante la testimonianza che ha reso per noi Denise, nel corso di una recente trasmissione radiofonica di Rai tre, dove intervistata da Sinibaldi, ha ricordato come lei e la sorellina avevano atteso il ritorno dei genitori, sperando di rivederli tra i sopravvissuti ai campi di sterminio, e come per molti anni non avevano avuto il coraggio di leggere quelle quattrocento pagine di un romanzo in cui verità e finzione si sposano in un inscindibile e commovente connubio.
La carrellata di personaggi parigini in fuga, descritti dall’autrice, spesso corrisponde a figure reali, veramente conosciuti anche dalle due bambine. Vedasi la famiglia borghese dei Péricand, paradigma della buona borghesia francese, squallidamente conformisti, ingessati nei loro pregiudizi, di cui lo sguardo disincantato dell’autrice ci regala ritratti di alta bravura, ridicolizzandone i limiti e le manie e i tic, in maniera indimenticabile. Così, dopo aver letto della parsimoniosa oculatezza della signora Péricand che imballa ogni cosa per la fuga da Parigi e porta scrupolosamente con sé i suoi beni materiali e i suoi figli e i suoi domestici e il suo spirito caritatevole sempre esibito, non possiamo non restare esilarati dalla sua non certo piccola dimenticanza del suocero disabile in carrozzella :“Guardò ancora una volta tutto quello che era riuscita a portare con sé, ‘tutto quello che aveva salvato!’: i suoi figli la sua valigetta. Toccò i gioielli e il danaro nascosti sul petto. Sì, in quei terribili momenti aveva agito con fermezza, coraggio e sangue freddo, non aveva perso la testa… Non aveva perso… Non aveva … Improvvisamente gettò un grido strozzato (…) Abbiamo dimenticato mio suocero- disse la signora Péricand, scoppiando in lacrime”. E scene del genere divertirebbero il miglior Dickens. E le pagine della fiumana ribollente dei parigini in fuga piacerebbero a Tolstoj, citato negli appunti dalla stessa scrittrice.
Ritratto indimenticabili anche quello dello scrittore Gabriel Corte, un esteta preoccupato dei suoi manoscritti che ha orrore della povertà, e quello della ballerina Arlette, disposta a qualsiasi compromesso, per la sua sopravvivenza, cinica ad oltranza. E come dimenticare i coniugi Michaud così saggi nella loro modestia e dolcezza, contrapposti all’arido banchiere? E i collezionisti di preziose porcellane, presi solo dal salvataggio dei loro oggetti? Anche l’episodio degli orfani che si rivoltano all’ingenuo prete diventando spietati aguzzini merita una lunga riflessione, proprio perché la “pietas” della Némirovsky spesso è a doppio taglio, colorandosi dell’ossimoro di note crudeli.
La massa di persone in movimento con i personaggi di cui sopra, intenti a porre in salvo soprattutto mobili, suppellettili e argenteria è contenuto nel primo movimento della “Suite française”, intitolato “Temporale di giugno”; in “Dolce” riappaiono di striscio i coniugi Michaud, forse gli unici capaci di mantenere il dignitoso calore della loro umanità. In questa seconda parte del romanzo, protagonista è soprattutto la storia d’amore tra la francese Lucile e il tenente tedesco che ha requisito la sua abitazione. Un rapporto che non ha implicazioni fisiche, fatto di un dolce sentimento, di un’intesa intellettuale e spirituale, un’affinità così coinvolgente da far dimenticare alla donna e a noi stessi che il tedesco è il nemico.
Resta vivo il rammarico dell’opera incompleta, dei tre tempi finali che l’autrice aveva progettato nei suoi appunti, così come aver visto premiato postumo il romanzo in Francia, ci ha riportato – per associazione d’idee – la malinconica immagine delle medaglie d’oro appese al petto degli orfani dei caduti in guerra.
Grazia Giordani







Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 07 Marzo 2010
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martedì 6 dicembre 2011

Triangolo di lettere



"Triangolo di lettere" Carteggio pubblicato da Adelphi
Nietzsche Lou von Salomé e Rée: un pruriginoso, ambiguo terzetto
Un terzetto che ha fatto sbocciare alla grande il malizioso fiore del pettegolezzo sulla bocca dei benpensanti, quello formato dai due amici filosofi Friedrich Nietzsche e Paul Rée in compagnia della fatalissima giovane russa Lou von Salomé. Un sodalizio inquietante e ammantato dall'ambiguità che nemmeno la pregevole pubblicazione del carteggio Triangolo di lettere, (a cura di Ernst Pfeiffer, nell'edizione originale) e curato da Mario Carpitella, nella pubblicazione italiana, fresco di stampa - uscito per i tipi dell'Adelphi -, riesce del tutto a chiarire, pur permettendoci di ripercorrere il tortuoso cammino che fra l'aprile e l'ottobre del 1882 ha visto i tre amici intimamente accomunati.
Il carteggio non si limita all'anno cruciale dell'82, ma ha un respiro più vasto (1875-1884) ed è il frutto di un difficile impegno editoriale che - avviato nel 1936 da Schlechta e poi ripreso ed ampliato da Pfeiffer è giunto a compimento solo nel 1970. Merito di Carpitella è stato quello di arricchire l'edizione italiana con documenti inediti raccolti da Mazzino Montinari, con un occhio all'edizione critica Colli-Montinari dell'Epistolario e uno ai risultati più recenti della ricerca internazionale su Nietzsche.
Eppure - precisa in prefazione Carpitella - "Chi da questo libro si attende risposte definitive circa il reale rapporto di Nietzsche con Lou von Salomé - interrogativo che da sempre ha travagliato chi si è occupato della biografia del filosofo, fino ai rotocalchi culturali e al cinema - rimarrà probabilmente deluso. La lacunosità del materiale documentario, censure e rimozioni di vario tipo si oppongono a ogni tentativo di fare finalmente chiarezza, consentendo così anche fantasiose e poco documentate interpretazioni in chiave psicoanalitica o addirittura omosessuale".
Se il carteggio non dissipa i dubbi sulla "peccaminosità" del triangolo (è stato sì o no un trasgressivo ménage à trois?), pone piuttosto in luce il sofferto e deluso innamoramento di Nietzsche, pur trattandosi di una "infatuazione intellettuale". ("Io sento in Lei altro che questi moti. Rinuncio volentieri ad ogni intimità e vicinanza, se solo posso esser certo di questo: che siamo concordi là dove le anime comuni non arrivano" e ancora: "...quella volta a Orta avevo deciso in cuor mio di fare partecipe Lei per prima della mia intera filosofia. Ah, lei non immagina quale decisione fosse quella: credevo che non si potesse fare dono più grande. Un'impresa di lunghissima lena..."). Sempre di origine intellettuale appare essere anche il rammarico per la scoperta del "tradimento" degli amici, rinfocolata dalle presunte rivelazioni della sorella, visceralmente ostile alla giovane russa, che non è certo la fatina benefica della vicenda, rosa da gelosia corrosiva nei confronti della giovane.
Il sogno di Nietzsche di creare un "convento di spiriti liberi" veniva miseramente infranto e questo sembra essere il tradimento più bruciante e doloroso per il genio del pensiero mondiale, l'autore dello Zarathustra che aveva pensato alla donna incline a "egoismo ferino", come alla sua "erede", dotata di "impulsi superiori". Erano gli anni in cui il filosofo stava approfondendo studi intens,i intesi a fondare scientificamente il "pensiero abissale" dell'eterno ritorno, di cui troviamo per la prima volta traccia nella Gaia scienza, in un aforisma sublime per potenza di pensiero e poetica espressività.
Le lettere - seppure in maniera frammentaria - ci raccontano come Nietzsche, svanita la delusione, (si sa che il tempo è un grande medico, capace di farci sublimare anche i dolori più cocenti) tornerà ad accettare il suo destino di solitudine e ad allontanarsi dalla sorella, la cui ingerenza nella vicenda era stata più che deleteria, vista la pessima opinione che nutriva nei confronti della disinibita "avventuriera", come più volte definirà la giovane Salomé. Nel 1884 Nietzsche giungerà addirittura a scrivere: "...di tutte le conoscenze che ho fatto, una delle più preziose e feconde è quella con Lou. Soltanto dopo averla frequentata sono stato maturo per il mio Zarathustra."
Ormai invecchiata, la stessa Lou Andreas-Salomé, così rivisitò, descrivendola, la sua situazione interiore degli anni di frequentazione nietzscheana: "Era inevitabile che, della natura e del pensiero di Nietzsche, mi affascinasse proprio quel che di rado trovava parola nelle sue conversazioni con Paul Rée - Nondimeno... esitavo a intraprendere quel cammino da cui mi ero dovuta allontanare per attingere chiarezza".
Insomma Nietzsche è il genio, il super intelligente del terzetto, eppure l'affascinante Lou (che stregò in seguito anche Rilke, Freud e Pfeffer, per citarne solo alcuni fra i più noti), gli preferisce Rée, un filosofo che ha preso luce riflessa dal confronto con Nietzsche, così come Teleman lo ha guadagnato dal confronto con Bach o Salieri da quello con Mozart. Ed è forse questo l'elemento che maggiormente ci stupisce e ci fa soffrire della delusione di Nietzsche, anche se ci conforta constatare che questo "giocoliere nell'arte di superare se stesso", sia riuscito a sublimare nel Pensiero la sofferenza.
Grazia Giordani