domenica 21 ottobre 2012

La "balconosa" Badia


Balconi
Come certi popoli si riconoscono di primo acchito per certi caratteri somatici o per il colore della pelle, così alcuni luoghi geografici o alcune città, hanno un loro inconfutabile biglietto da visita che è quello delle loro caratteristiche architettoniche.
Per questo motivo Carducci - innamorato di Bologna, sua città adottiva - la definiva "porticosa", creando un simpatico neologismo, atto a sottolineare la grande ricchezza di portici del capoluogo emiliano. Parafrasando il Poeta, qualcuno ha definito "balconosa" Badia, pare infatti che questa piccola citta' bagnata da Adige e Adigetto, sia ricca in maniera particolare di balconi e davanzali, veroni gentili che in primavera spesso appaiono fioriti, quasi pensili giardini.
Questa caratteristica la accomuna a Lendinara e Rovigo, pure ricche di leggiadri veroni con spalliere sempre bel lavorate, mai identici, mai monotoni, come se questi prolungamenti di dimora verso l'esterno , volessero aggiungere una nota in più, un utile ornamento alle case.
Se oggi i davanzali hanno una pura funzione estetica, un tempo - nei secoli scorsi - erano una valvola di sfogo verso l'esterno, soprattutto per il mondo femminile. Come avrebbe fatto a dialogare Giulietta con il suo Romeo, senza la complicità di un verone? Shakespeare avrebbe avuto qualche difficoltà a scrivere altrimenti la sua celebre tragedia. Le donne, fino al secolo scorso, soprattutto nei ceti elevati, uscivano meno frequentemente sole per strada e avevano così meno opportunità di incontrare corteggiatori ed innamorati. Il balcone era dunque un complice salotto all'aperto per scambiare saluti ed occhiate, era un luogo di ritrovo per "ciacole" anche rimbalzate da un verone all'altro, insomma era un tramite per socializzare, uscire, pur restando in casa, guardar fuori senza troppo compromettersi, non del tutto svelate da rampicanti fioriti o folto fogliame nei vasi.
Oggi che il costume è cambiato e le donne vivono maggiori libertà, i balconi restano anche nelle nuove costruzioni, più essenziali nella forma, meno elaborati, più sobri nell'impianto. Sono ancora aperture verso la luce dell'estate, proiezioni che interrompono la chiusura delle stanze. Forse racchiudono un sottile messaggio freudiano, un invito alla comunicazione che la terra polesana sa ancora intendere ed ascoltare, una voglia ostinata di non rompere del tutto con il passato, magari tenendosi strettamente afferrati proprio alla ringhiera di un balcone.
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 27 Dicembre 2003

sabato 13 ottobre 2012

Deliziosa serata al Caffè Letterario "Antica Rampa" di Badia



Ancora una serata molto piacevole al Caffè letterario "Antica Rampa" di Badia Polesine, organizzata dall'infaticabile Gilberto Moretti che - dall'arte, alla letteratura, passando attraverso temi anche meno impegnativi - va vivacizzando le uscite pomeridiano-serali dei veneti e non solo, coadiuvato dalla bellezza architettonica e dal retroterra storico in cui avvengono gli incontri.
Ieri sera, un piacevolissimo duetto Alberto Cristini-Marco Bottoni ha coinvolto un pubblico molto interessato e divertito dalla verve dell'artista e del poeta. L'esposizione dei quadri e delle sculture di Cristini ha fatto da policromo fondale, nella prima parte della serata, regalando ai fruitori l'illusione di viaggiare su eleganti imbarcazioni, immerse in un liquido elemento che fa sognare mari lontani, onirica proiezione dell'artista, estroso creatore della "nuoto-pittura". A questo creativo rodigino non bastano tele e pennelli. Predilige anche assemblare discipline ginnico artistiche con un piglio che sarebbe piaciuto ai futuristi, anche se il suo linguaggio, pur con qualche excursus nell'informale, ama sostare dentro un'ispirazione poetico-verista, mai fotografica, ovvero vieta riproduzione del reale.
Deliziosi i suoi bronzetti, così dinamici ed espressivi.
Marco Bottoni, pluripremiato poeta di Castelmassa (RO) - in perfetta linea con la tradizione dei medici scrittori -  ha presentato la sua silloge Regno: Animalia (Centro Studi Tindari Patti,pp.146, euro 10) con un sense of humour veramente travolgente. Sembrava di essere a teatro, coinvolti dalla sapiente ironia di questo insolito autore che sa regalare levitas anche agli argomenti più ostici e difficili.
 Interessante la premessa della sua silloge che ci conduce per mano dentro i multiformi intenti dell'autore, facendoli nostri, perché si può imparare anche sorridendo. E Bottoni ne è ben consapevole.
Un rilievo speciale merita l'atmosfera che si era creata nel corso del pomeriggio-sera. Un clima amichevole e intimista, l'ossimoro di una convivialità contagiosa come una deliziosa malattia.
Grazia Giordani

martedì 13 marzo 2012

Il destino dei Malou

Leggiamo molto coinvolti, nella bella traduzione di Federica di Lella e Maria Laura Vanorio,  ancora un romanzo americano di  Georges Simenon (Liegi, 1903-Losanna 1989). Scritto in Florida nel 1947 e stampato lo stesso anno, Il destino dei Malou (pp.200, euro18), ci viene proposto sempre da Adelphi, che dal 1985 ne cura la riedizione dell’opera omnia.  Una delle novità che troviamo in queste pagine, rispetto ad altri romanzi dell’autore, è il dualismo di interpretazione, quasi un  doublage, rispetto all’indole e al carattere del personaggio che conosciamo post mortem, il tanto chiacchierato  Eugène Malou, riguardo all’ottica e all’angolo di visuale di chi lo sta considerando.
E’ uno squallido truffatore l’affarista suicida già nelle prime battute della narrazione – oggi considerato un palazzinaro -, oppure un uomo che venuto dal niente, dalla suburra della società, si è sacrificato fino allo strazio per dare agio e benessere alla propria famiglia? A Simenon sono sempre piaciute queste contorsioni psicologiche, questo rimescolio nei meandri dell’animo,  poiché sa bene quanto sia contorta l’umanità e quanto il grigio sia più attendibile del bianco o del nero, in quanto a colore del cuore dei suoi simili.
Il romanzo si apre con una revolverata. Alle quattro e un quarto di un caliginoso novembre, in un paesino alle porte di Parigi, Eugène Malou esce da un aristocratico palazzo di rue de Moulins e si spara un colpo in faccia. Sarà accolto agonizzante nella vicina farmacia e lì chiuderà i suoi giorni, dopo terribile strazio, sotto gli occhi dei suoi compaesani che di lui solo sembrano sapere la disgrazia economica in cui è caduto, quale imprenditore edile, convinti della sua mancanza di integrità morale. Pubblica opinione fomentata dalla pessima campagna di stampa del Phare du centre, il quotidiano locale che sembra aver inzuppato il pane dentro episodi torbidi ed infamanti del passato dell’uomo che si è tolto la vita.
Tra la frotta di studenti che, in quel momento, passa casualmente per strada, c’è il diciassettenne Alain Malou che resterà per sempre vulnerato dal terribile spettacolo della morte del padre. Ora, spetta proprio a lui di comunicare in casa la notizia. Incontrerà solo finzione di dolore da parte di una madre fatua e vanesia (che, per associazione d’idee assimiliamo a Fanny Némirovsky, madre della grande Irène, tante volte protagonista dei suoi romanzi). Poco dolore anche da parte del fratello di primo letto di Alain, preso dalle sue modeste ambizioni di vita e, ancor meno, da Corine, la carnale e dissoluta sorella. Una famiglia avvelenata dai rancori che, morto Eugène, non tarda a sbranarsi, arraffando quello che può, quando ormai non vi è più danaro, nemmeno per il funerale. E Simenon è maestro nell’intingere la penna dentro la mediocrità e la bassezza di alcuni suoi personaggi. Alain, li osserva in silenzio. Si sente diverso da loro e decide, nonostante tutto, di restare in quel paese di provincia ostile, cercando la verità sul padre, scegliendosi un destino diverso. Grazie a due amici veri del padre così infangato, ricostruisce una vita fatta di espedienti e di affari al limite del reato. Ma scopre anche un padre che ha dato la propria vita per il benessere della sua famiglia, un ragazzo nato poverissimo che ha lottato per raggiungere una posizione ai piani alti. Un epilogo inconsueto per l’autore belga che ci aveva abituati ai finali cupi e tragici, perché nel giovane Alain c’è il germe del perdono e della speranza in  una vita migliore, nonostante le umiliazioni inflittegli dal crudele oscurantismo della piccola borghesia che lo attornia e non lo favorisce di certo.
Grazia Giordani


domenica 19 febbraio 2012

Una serata di grande spessore culturale al caffè letterario "Antica Rampa"



Una serata veramente di grande spessore culturale e nel contempo divulgativa in maniera intelligente, quella che l'altra sera ci ha offerto il caffè letterario "Antica Rampa " di Badia Polesine (RO) con la presentazione del volume Il Seprio nel Medioevo (Il Cerchio, pp.102, euro 18).
La storica medievista Elena Percivaldi (curatrice, fra l'altro,  del mosaico di saggi che compongono l'opera) e l'archeologo Cristiano Brandolini hanno saputo porgere all'uditorio - fra cui è figurato persino un bimbo di otto anni ! - un excursus vivace, colto e sapiente atto a sfatare i luoghi comuni fra cui brilla quello dell'oscurantismo riferito al Medioevo. La Storia, infatti, non è costituita da scompartimenti stagni, epoche indipendenti e slegate fra loro, ma è proprio dal continuun che ne possiamo evincere valenza e significato.
"Questo volume ripercorre la storia dell'antico Comitatus - prima ancora Iudiciaria  - del Serpio nel Medioevo, quando quest'area ora appartenente alla Provincia di Varese, rivestiva un ruolo politico, strategico, militare ed economico commerciale di primaria importanza. I saggi qui raccolti forniscono un quadro completo sulle vicende del Seprio e del suo centro eponimo, Castrum Sibrium, oggi parco archeologico ., ma un tempo fortezza cardine del sistema difensivo subalpino, distrutta nel 1287 da Ottone Visconti e mai più riedificata".
Nonostante il momento di crisi economica che la nostra Nazione sta attraversando, questi recuperi del nostro passato, estesi anche e soprattutto in luoghi inediti, atti a farci prendere sempre maggior consapevolezza della nostra identità e della continuità del fluire degli avvenimenti che ci hanno preceduto, dovrebbe prendere sempre più vita, rafforzato dall'impegno di studiosi come quelli coordinati da Elena Percivaldi e sottolineato dall'intuizione di un editore che sa vedere lontano come Adolfo Morganti del raffinato IL CERCHIO.
Grazia Giordani

domenica 15 gennaio 2012

Se fosse per sempre

Chi si è commosso alla vista delle scene tanto toccanti quanto surreali del celebre film Ghost – Patrick Swayze e Demi Moore protagonisti – ritroverà parte di quel clima iperomantico nel romanzo Se fosse per sempre dell’esordiente Tara Hudson (Editrice Nord, pp.360, euro 18,60, traduzione di Paola Bonini). Fin da ragazzina, l’autrice, nata e cresciuta in Oklahoma, è stata una gran lettrice di storie di fantasmi. Da questa sua propensione è nata la sua opera prima, salutata da un grande successo internazionale. Forse perché c’è una certa parte di lettori, soprattutto fra i giovani, orientata verso il genere fantasy, dove tutto può accadere.
 Subito, nell’incipit, incontriamo Amelia, morta diciottenne,  che da molti anni si aggira inquieta sulla riva del fiume. Ha perso la cognizione del tempo e nulla ricorda del suo passato. Non sa più niente dei suoi familiari e del suo stesso cognome. Insomma, una perdita d’identità assoluta. Sa rivivere solo l’angoscia della propria morte, crede per annegamento, inghiottita dalle acque del fiume. Un giorno, improvvisamente uscita dalla sua solipsistica situazione, si accorge che un ragazzo sta annegando e lotta per sopravvivere. Decide di aiutarlo. Come per magia, il giovane, superando la situazione di pericolo, si dirige verso Amelia e la vede e ne sente la voce. In quell’istante, l’infelice ragazza capisce di non  essere più sola, avendo trovato qualcuno di cui fidarsi, oltre a tutto disposto a scoprire chi l’ha uccisa, sfidando le forze oscure che incombono e che la stanno minacciando.
Piacerà – dicevo – questa scrittura sentimentale ed immediata a chi privilegia gli amori impossibili che fanno evadere dal grigiore del reale e a chi ama tuffarsi nel mistero che accompagna il lettore fino all’epilogo. L’allure gotica della presenza di fantasmi è stata molto presente nella letteratura dell’Ottocento. Cime tempestose di Emily Bronte ne è l’esempio più eletto, ma in quel caso abbiamo sconfinato nel pianeta della letteratura d’eccellenza. Il romanzo della Hudson, seppur gradevole, non ha di queste pretese, ma sa darci l’esempio di un tenero idillio tra la rincuorata Amelia e il generoso Joshua, quasi un sodalizio tra un uomo reale e una ragazza fantasma, divenuti inseparabili nella lotta contro nemici, quali spiriti maligni e sette di streghe, e veggenti con capacità medianiche.
Al di là del tono di favola nera, dobbiamo riconoscere all’autrice, di aver saputo regalare un nuovo spessore – stavamo per dire umano – scordandoci che si tratta di un fantasma, ad Amelia che ci appare dotata di una femminile delicatezza di sentire.
Chissà quanti uomini reali gradirebbero incontrare, nella loro quotidiana esistenza, una fantasmina tanto sensibile ed amorevole.
Grazia Giordani


venerdì 6 gennaio 2012

PAURA




Chi ha apprezzato Lettera di una sconosciuta o Bruciante segreto di Stefan Zweig (Vienna 1881- Petròpolis Brasile 1942), ritroverà in Paura (pp.113, euro 10, traduzione di Ada Vigliani) la stessa marca semantica di un autore quasi dimenticato a cui Adelphi sta ridando luce con lodevole impegno.
Ebreo, austriaco, cosmopolita, Zweig è stato un notevole intellettuale europeo che nel 1942 si suicidò – insieme con la seconda giovane moglie – in  Brasile, dove angosciato dalle persecuzioni razziali, si era rifugiato, nell’illusione di ritrovare  salvezza e soprattutto serenità. Straordinario biografo (la sua autobiografia è un pregevole ritratto d’epoca, pieno di nostalgia per lo splendido autunno dell’era asburgica), come romanziere e narratore, forse indulge, talvolta, in eccessi di enfasi, “iper sentimentali”. Ciò non toglie che i suoi romanzi e i suoi racconti siano acute indagini psicologiche, veri ritratti di angosce, miste ad incubi e a deliri della passione. Maestro della suspense, in Paura, tocca il tema dell’adulterio femminile, inducendoci a ripensare a Madame Bovary, l’adultera per noia e ad Anna Karenina che ha tradito sopraffatta da un fato superiore, cui non ha potuto sfuggire.
Irene Wagner, l’eroina di Zweig, è un’affascinante giovane signora dell’alta borghesia, fin de siècle, moglie di un famoso avvocato dai modi convenzionali e severi, vive in una lussuosa casa, con servitù, madre di due figli piccoli, cade, quasi inconsapevolmente, tra le braccia di un amante, accettato più per annoiata vanità che per passione. Vive in maniera inerte nella ‹‹vacua inoperosità della gente inoperosa››. Ma, la sua vita è distrutta, quando, uscendo dalla casa dell’amante, viene sfacciatamente affrontata da una donna che – dando prova di conoscerla bene, nome ed indirizzo compresi – comincia a ricattarla, estorcendole cospicue somme di danaro e persino il prezioso anello di fidanzamento.
La paura, come un crescendo sinfonico, viene descritta dall’autore con tale maestria da incollare il lettore alla pagina, tanto da aver incantato registi del passato che ne hanno tratto varie versioni cinematografiche. Nel 1954 persino Roberto Rossellini si occuperà di questo avvincente soggetto, allontanandosi, purtroppo, molto dalla trama di Zweig, dando corpo all’ultimo lavoro nato dal sodalizio artistico e privato tra il regista romano e l’attrice svedese Ingrid Bergman.
Tornando alla protagonista del racconto, Irene è sempre più perseguitata dalla ricattatrice e lo sguardo indagatore del marito le crea apprensioni sempre più vertiginose. Infatti, è una vertigine di disperanti angosce dentro cui sempre più si sente sprofondare, come se la sua vita fosse riflessa da specchi deformanti.
Che il marito cominci a sospettare? Che cerchi, con il suo atteggiamento, d’invitarla alla confessione? Che sia l’amante, ormai disprezzato e del tutto messo da parte, il mandante della ricattatrice? Insieme ad Irene anche noi sospettiamo ed accavalliamo ipotesi, ricalcando i passi falsi della fedifraga, poco inclini a simpatizzare per lei, suggestionati da come sa porgercela l’autore, quando arriva l’insospettabile coup de théậtre a lasciarci senza fiato, contenti dell’epilogo e scontenti che sia finita la narrazione.
Grazia Giordani