domenica 15 gennaio 2012

Se fosse per sempre

Chi si è commosso alla vista delle scene tanto toccanti quanto surreali del celebre film Ghost – Patrick Swayze e Demi Moore protagonisti – ritroverà parte di quel clima iperomantico nel romanzo Se fosse per sempre dell’esordiente Tara Hudson (Editrice Nord, pp.360, euro 18,60, traduzione di Paola Bonini). Fin da ragazzina, l’autrice, nata e cresciuta in Oklahoma, è stata una gran lettrice di storie di fantasmi. Da questa sua propensione è nata la sua opera prima, salutata da un grande successo internazionale. Forse perché c’è una certa parte di lettori, soprattutto fra i giovani, orientata verso il genere fantasy, dove tutto può accadere.
 Subito, nell’incipit, incontriamo Amelia, morta diciottenne,  che da molti anni si aggira inquieta sulla riva del fiume. Ha perso la cognizione del tempo e nulla ricorda del suo passato. Non sa più niente dei suoi familiari e del suo stesso cognome. Insomma, una perdita d’identità assoluta. Sa rivivere solo l’angoscia della propria morte, crede per annegamento, inghiottita dalle acque del fiume. Un giorno, improvvisamente uscita dalla sua solipsistica situazione, si accorge che un ragazzo sta annegando e lotta per sopravvivere. Decide di aiutarlo. Come per magia, il giovane, superando la situazione di pericolo, si dirige verso Amelia e la vede e ne sente la voce. In quell’istante, l’infelice ragazza capisce di non  essere più sola, avendo trovato qualcuno di cui fidarsi, oltre a tutto disposto a scoprire chi l’ha uccisa, sfidando le forze oscure che incombono e che la stanno minacciando.
Piacerà – dicevo – questa scrittura sentimentale ed immediata a chi privilegia gli amori impossibili che fanno evadere dal grigiore del reale e a chi ama tuffarsi nel mistero che accompagna il lettore fino all’epilogo. L’allure gotica della presenza di fantasmi è stata molto presente nella letteratura dell’Ottocento. Cime tempestose di Emily Bronte ne è l’esempio più eletto, ma in quel caso abbiamo sconfinato nel pianeta della letteratura d’eccellenza. Il romanzo della Hudson, seppur gradevole, non ha di queste pretese, ma sa darci l’esempio di un tenero idillio tra la rincuorata Amelia e il generoso Joshua, quasi un sodalizio tra un uomo reale e una ragazza fantasma, divenuti inseparabili nella lotta contro nemici, quali spiriti maligni e sette di streghe, e veggenti con capacità medianiche.
Al di là del tono di favola nera, dobbiamo riconoscere all’autrice, di aver saputo regalare un nuovo spessore – stavamo per dire umano – scordandoci che si tratta di un fantasma, ad Amelia che ci appare dotata di una femminile delicatezza di sentire.
Chissà quanti uomini reali gradirebbero incontrare, nella loro quotidiana esistenza, una fantasmina tanto sensibile ed amorevole.
Grazia Giordani


venerdì 6 gennaio 2012

PAURA




Chi ha apprezzato Lettera di una sconosciuta o Bruciante segreto di Stefan Zweig (Vienna 1881- Petròpolis Brasile 1942), ritroverà in Paura (pp.113, euro 10, traduzione di Ada Vigliani) la stessa marca semantica di un autore quasi dimenticato a cui Adelphi sta ridando luce con lodevole impegno.
Ebreo, austriaco, cosmopolita, Zweig è stato un notevole intellettuale europeo che nel 1942 si suicidò – insieme con la seconda giovane moglie – in  Brasile, dove angosciato dalle persecuzioni razziali, si era rifugiato, nell’illusione di ritrovare  salvezza e soprattutto serenità. Straordinario biografo (la sua autobiografia è un pregevole ritratto d’epoca, pieno di nostalgia per lo splendido autunno dell’era asburgica), come romanziere e narratore, forse indulge, talvolta, in eccessi di enfasi, “iper sentimentali”. Ciò non toglie che i suoi romanzi e i suoi racconti siano acute indagini psicologiche, veri ritratti di angosce, miste ad incubi e a deliri della passione. Maestro della suspense, in Paura, tocca il tema dell’adulterio femminile, inducendoci a ripensare a Madame Bovary, l’adultera per noia e ad Anna Karenina che ha tradito sopraffatta da un fato superiore, cui non ha potuto sfuggire.
Irene Wagner, l’eroina di Zweig, è un’affascinante giovane signora dell’alta borghesia, fin de siècle, moglie di un famoso avvocato dai modi convenzionali e severi, vive in una lussuosa casa, con servitù, madre di due figli piccoli, cade, quasi inconsapevolmente, tra le braccia di un amante, accettato più per annoiata vanità che per passione. Vive in maniera inerte nella ‹‹vacua inoperosità della gente inoperosa››. Ma, la sua vita è distrutta, quando, uscendo dalla casa dell’amante, viene sfacciatamente affrontata da una donna che – dando prova di conoscerla bene, nome ed indirizzo compresi – comincia a ricattarla, estorcendole cospicue somme di danaro e persino il prezioso anello di fidanzamento.
La paura, come un crescendo sinfonico, viene descritta dall’autore con tale maestria da incollare il lettore alla pagina, tanto da aver incantato registi del passato che ne hanno tratto varie versioni cinematografiche. Nel 1954 persino Roberto Rossellini si occuperà di questo avvincente soggetto, allontanandosi, purtroppo, molto dalla trama di Zweig, dando corpo all’ultimo lavoro nato dal sodalizio artistico e privato tra il regista romano e l’attrice svedese Ingrid Bergman.
Tornando alla protagonista del racconto, Irene è sempre più perseguitata dalla ricattatrice e lo sguardo indagatore del marito le crea apprensioni sempre più vertiginose. Infatti, è una vertigine di disperanti angosce dentro cui sempre più si sente sprofondare, come se la sua vita fosse riflessa da specchi deformanti.
Che il marito cominci a sospettare? Che cerchi, con il suo atteggiamento, d’invitarla alla confessione? Che sia l’amante, ormai disprezzato e del tutto messo da parte, il mandante della ricattatrice? Insieme ad Irene anche noi sospettiamo ed accavalliamo ipotesi, ricalcando i passi falsi della fedifraga, poco inclini a simpatizzare per lei, suggestionati da come sa porgercela l’autore, quando arriva l’insospettabile coup de théậtre a lasciarci senza fiato, contenti dell’epilogo e scontenti che sia finita la narrazione.
Grazia Giordani