tag:blogger.com,1999:blog-63881474589800087872024-03-13T20:46:36.337-07:00Le stagioni dell'animagraziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.comBlogger16125tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-44345616308289952812013-10-25T05:05:00.000-07:002013-10-25T05:09:09.692-07:00Fulvio Tomizza<ol><a class="bia uh_rl" href="http://www.google.it/imgres?imgurl=http://www.palladio-tv.it/internet/ipertesti2002/3clet/libri-tomizza/Image4.jpg&imgrefurl=http://www.palladio-tv.it/internet/ipertesti2002/3clet/biografiatomizza.htm&h=213&w=168&sz=1&tbnid=v175PTUhPktMCM:&tbnh=186&tbnw=146&zoom=1&usg=__oSCozZoRHQ9Mf7eOBlnSRYiRuho=&docid=JznyfsJJmZmPlM&itg=1&sa=X&ei=xl1qUtTnJ4LR7Aapt4GoAQ&sqi=2&ved=0CJwBEPwdMAo" id="v175PTUhPktMCM:" style="clear: right; float: right; height: 186px; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em; margin-top: 0px; width: 146px;" tag="bia"><br /></a><ul class="kno-mi" style="display: inline;">
<li class="bili img-kc-m bilik kno-fb-ctx iukp10 uh_r" style="width: 146px;"><div class="krable" data-ved="0CJwBEPwdMAo">
</div>
</li>
</ul>
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<div class="birrg" style="height: 107px;">
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</div>
</div>
</ol>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a class="bia uh_rl" href="http://www.google.it/imgres?imgurl=http://www.palladio-tv.it/internet/ipertesti2002/3clet/libri-tomizza/Image4.jpg&imgrefurl=http://www.palladio-tv.it/internet/ipertesti2002/3clet/biografiatomizza.htm&h=213&w=168&sz=1&tbnid=v175PTUhPktMCM:&tbnh=186&tbnw=146&zoom=1&usg=__oSCozZoRHQ9Mf7eOBlnSRYiRuho=&docid=JznyfsJJmZmPlM&itg=1&sa=X&ei=xl1qUtTnJ4LR7Aapt4GoAQ&sqi=2&ved=0CJwBEPwdMAo" id="v175PTUhPktMCM:" style="height: 186px; margin-left: 1em; margin-right: 1em; margin-top: 0px; width: 146px;" tag="bia"><br /></a></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;">
<b><i><span style="font-size: 26.0pt;">Fulvio
Tomizza<o:p></o:p></span></i></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;">
<b><i><span style="font-size: 26.0pt;">(1935-1999)<o:p></o:p></span></i></b></div>
<div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Immaginate
un ragazzo di bell’aspetto, vagheggiato dalle <i>mule</i> triestine per i suoi occhi di velluto, dotati di irresistibile
languore. Pensatelo sradicato, spaesato, rifugiato a Trieste, questo avvenente ventenne che si è lasciato
alle spalle la sua Istria tanto amata, dovuta abbandonare quando la sua adorata
penisola istriana è passata sotto
l’amministrazione jugoslava.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Era
nato nel 1935 da una famiglia della piccola borghesia a Giurizzani (Juricani in
croata) dove i suoi genitori erano proprietari di piccoli appezzamenti di
terreno. Precocemente dotato di senso artistico e di predisposizione alla
scrittura – conseguita la maturità artistica a Capodistria – passò
temporaneamente a Belgrado e a Lubiana, occupandosi di teatro e di cinema. Qui,
infatti, girò come aiuto regista un film che venne presentato al festival di Venezia.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Ma
noi prendiamo a immaginarlo poco più che ventenne, ventenne, negli anni triestini, ricongiunto
alla madre, dopo la tragica morte del padre – sospettato dai soldati titini di
ribellione al regime. Proprio in questi anni conosce la giovane, poco meno che
coetanea Laura Levi, una signorina di buona famiglia, con cui intreccerà una
delicata storia d’amore e che diventerà presto sua moglie.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Ventiduenne,
nel 1957 vinse il suo primo riconoscimento importante al “Cinque Bettole” di
Bordighera con tre racconti (in commissione: Giancarlo Vigorelli, Carlo Bo,
Bonaventura Tecchi, Carlo Batocchi e Italo Calvino). Quegli stessi racconti
d’esordio, erano stati molto lodati dal futuro suocero (<i>quel mulo el ga ciaf<a href="file:///C:/Users/Grazia/Documents/Fulvio%20Tomizza.doc#_ftn1" name="_ftnref1" title=""><span class="MsoFootnoteReference"><!--[if !supportFootnotes]--><span class="MsoFootnoteReference"><b><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 16.0pt; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">[1]</span></b></span><!--[endif]--></span></a> </i>!)<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">La
famiglia di Laura avrà grande importanza nella vita e nella formazione di
Fulvio, molto pieno di ammirazione per l’estro artistico del suocero, musicista
di valore, docente di storia della musica all’Università di Trieste.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">La
nostalgia per la sua terra lo spingerà a scrivere nel 1960 il suo primo romanzo
di grande successo<b><i> <span style="color: maroon;">Materada</span> </i></b> in cui narra la storia di una famiglia che –
al consolidarsi del regime comunista -
la scia tutto dietro le sue spalle e parte. Si ipotizza autobiografica,
almeno in parte, questa sua opera prima,
risveglierà l’interesse della critica letteraria non solo nazionale, piena di
ammirazione per il valore epico del racconto di un popolo diviso alla ricerca
di una nuova identità. Sarà Francesco, istriano di Materada, qui <i>nom de plume</i>, forse del nostro Fulvio, a
decidere di abbandonare il suo paese,
strappando le radici che lo legano a una terra aspra seppure fertile che ora
gli è negata e contesa. Con i nuovi trattati del 1954 la zona B dell’Istria, in cui Materada è inclusa – viene assegnata
definitivamente alla Jugoslavia, anche
se è permesso scegliere se restare o emigrare verso Trieste. In questo
lacerante scenario storico il venticinquenne autore racconta le
sorti di un popolo disorientato e straziato da rancori, odi e vendette
sanguinose, registrando che in Istria – dopo un repressivo fascismo –
subentrava un radicale comunismo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Materada</span></i></b><b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">, 1961, Mondadori, pp.175,lire 1.000</span></b><b><span style="font-size: 16.0pt;"><o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<span style="font-size: 16.0pt;">Tre anni dopo <b><i>Materada,</i></b> compare il
racconto drammatico <b><i>La ragazza di Petrovia </i></b>(che ci parla ancora di un popolo che
alla fine della seconda guerra mondiale è stato costretto dagli eventi politici
a lasciare casa, terra e famiglia per stabilirsi in Italia, nei “campi di
raccolta” vicini a Trieste, sperando in una nuova esistenza, in mezzo a
squallori e nuove discriminazioni. Protagonista del romanzo è Giustina che, in
attesa di un figlio, vivrà un amore
senza speranza.), al quale segue </span><b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Il
bosco di acacie</span></i></b><b><i><span style="font-size: 16.0pt;"> </span></i></b><span style="font-size: 16.0pt;">in cui l’autore
parla ancora dell’esodo degli italiani d’Istria offrendoci un
concentrato di grande bellezza di stile e contenuto per l’azione incalzante,
per i silenzi e i risvolti freudiani del protagonista quando accompagna il
padre a morire in una terra che non è la sua. Nascita e morte inducono a un’analisi
psicologica di raro spessore).<o:p></o:p></span><br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Nel </span><b><span style="color: maroon; font-size: 20.0pt;">1969</span></b><b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">
</span></b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Tomizza guadagna il <b>Viareggio</b></span><span style="font-size: 16.0pt;"> il primo premio di grosso spessore con </span><b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">L’albero dei sogni</span></i></b><b><i><span style="font-size: 16.0pt;"> </span></i></b><span style="font-size: 16.0pt;">(personaggio principale è ancora il padre che è stato
per lo scrittore una autorità alla quale aveva forse trasgredito. Quindi, per
ovviare ai sensi di colpa – tema ricorrente nella scrittura tomizziana,
formatasi alla scuola dell’amato Dostoevskij – lo scrittore si autoanalizza. Il
racconto poggia su uno sfondo autobiografico di un autore che sente di scrivere
non solo per vocazione, ma anche “<i>per una
piccola missione”.<o:p></o:p></i></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><span style="color: maroon; font-size: 20.0pt;">1977 </span></b><b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Questo è l’anno del
capolavoro di Tomizza<o:p></o:p></span></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><i><span style="color: maroon; font-size: 22.0pt;">La
miglior vita</span></i></b><b><i><span style="font-size: 16.0pt;">,</span></i></b><span style="font-size: 16.0pt;"> “epica della frontiera”,<b><i> </i></b>meritatissimo </span><b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Premio
Strega.</span></b><span style="font-size: 16.0pt;"> Romanzo corale, cronaca
attraverso gli anni, di un villaggio istriano di confine, Radovani, narrata dal
sacrestano Martin Crusich che ha servito messa a sette suoi parroci. Il romanzo
abbraccia uno spazio ampio, comprensivo di tutto il ‘900, in una terra mista di
stirpi, dominazioni e religioni, ovvero due grandi guerre, mutamenti di
nazionalità, esodi volontari o forzati, molte morti, una rivoluzione socialista,
un’epidemia di vaiolo, un terremoto.”<b><i>Continuavamo</i></b><i> <b>a trovarci in piena guerra per
l’eterna questione dell’essere italiani e dell’essere slavi, quando in realtà
non eravamo che bastardi</b></i> – dirà il sacrestano, interpretando il
pensiero dell’autore. Memorabili alcuni dei sette parroci: Don Stipe, il
cappellano biondo che sogna invano una riscossa, anche religiosa, dei popoli
slavi e incoraggia le nozze di Martin con Palmira. C’è il prete vessato dalla
sua perpetua e quello che la vessa, il sessuofobo e – infine – don Miro che è
stato partigiano con Tito, straziato da un amore pericoloso con una maestrina
del villaggio, per non arrendersi, si
distrugge di vino e di cancro. Con la sua morte, Radovani, in regime
socialista, non avrà più parroci. Nella deserta canonica alloggerà Martin,
divenuto guardiano dei ricordi. Un modesto <i>nonzolo<a href="file:///C:/Users/Grazia/Documents/Fulvio%20Tomizza.doc#_ftn2" name="_ftnref2" title=""><span class="MsoFootnoteReference"><!--[if !supportFootnotes]--><span class="MsoFootnoteReference"><b><span style="color: black; font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 16.0pt; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">[2]</span></b></span><!--[endif]--></span></a></i>
è dunque in grado di ricreare il passato, di rispecchiare il presente, di
additare il futuro. Tomizza gli ha assegnato il
compito di fare storia con la cronaca, di estrarre la cronaca dalla
storia, visualizzando la politica dei regimi, dei fascisti, dei
partigiani, del mondo ricco e povero,
dei fedeli, degli agnostici, dei giovani e dei vecchi<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">La
miglior vita, 1996, Oscar Mondadori, pp.310, Lire 13.000<o:p></o:p></span></i></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Nel <b>1984 esce <i>Il male viene dal Nord</i></b> con radici nel passato della
Controriforma. Il capodistriano Paolo
Vergerio il Giovane si sposta verso il Protestantesimo.</span><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;"><o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">1986<i>.
</i></span></b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Nel romanzo <b><i>Gli
sposi di via Rossetti</i></b> </span><span style="font-size: 16.0pt;">l’autore ricorre
ad una corrispondenza privata per narrarci di due giovani sloveni – residenti a Trieste –
terminata in tragedia con la loro morte.
Siamo nel 1944.. Trieste è chiusa nella morsa dell’occupazione tedesca e
nel contempo percorsa dalla diffidenza e dall’odio che oppongono l maggioranza
italiana alla minoranza slovena. Tomizza ritrova un gruppo di lettere d’amore
scritte da Stanko Vuk – incarcerato per cospirazione antifascista - alla moglie Dani, i due sposi assassinati. L’autore s’interroga quindi sulla qualità di quel
sentimento d’amore.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Questo è un
romanzo a cui sono particolarmente affezionata perché ha segnato l’inizio della
mia fraterna amicizia con l’autore con cui – da quell’anno, fino alla sua morte
– ho intrattenuto anche una fitta corrispondenza. Con il suo arrivo a Badia – il 30 marzo 1987
– mi è stato affidato il compito dalla biblioteca – di fargli da <i>chaperonne</i>
– conducendolo a visitare i monumenti della nostra piccola città. Lunghe ore di
dialogo umano e letterario hanno lasciato un segno profondo nei miei ricordi.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Gli
sposi di Via Rossetti, 1986, Mondadori, pp.197, lire 18.000<o:p></o:p></span></i></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">I
rapporti colpevoli, </span></i></b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">uscito
nel <b><i>1992</i></b>
</span><span style="font-size: 16.0pt;">, regalerà un cemento tutto speciale alla
storia della nostra amicizia perché </span><b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">venerdì 12 marzo 1993,</span></b><span style="font-size: 16.0pt;"> l’autore lo presenterà in Accademia dei Concordi a
Rovigo in “tandem” col mio romanzo </span><b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Hena.</span></i></b><b><i><span style="font-size: 16.0pt;"> </span></i></b><span style="font-size: 16.0pt;">Secondo
Zanzotto ci troviamo davanti “le pagine
più belle e rivelatrici di tutta
la sua opera”. Questo è un romanzo più che mai psicoanalitico, di
autopunizione in cui passato , presente e futuro si coagulano in un <i>unicum</i> di rara suggestione. Un vero
cocktail di dostoevskijani sensi di colpa. Siamo di fronte a una kafkiana
chiamata in giudizio. Sfilano davanti ai nostri occhi varie città. Surreale,
onirico e salvifico, poiché da questa scrittura l’autore si è sentito
purificato.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Due enunciati
capitali per penetrare nell'assunto del romanzo. Malattia e disubbidienza,
dunque. Ma disubbidienza a che cosa, nei confronti di chi? A un valore sociale,
morale e cattolico, innanzitutto, per cui la vita umana oltre che intoccabile è
sacra Una convenzione tutto sommato abbastanza banale, che la pone a livello di
quelli che antropologicamente (Malinowski) sono i bisogni o imperativi primari
(la mera sopravvivenza); la crisi dell'autore-protagonista (il libro è scritto
in prima persona) subentra invece dalla frustrazione dei<b> bisogni o imperativi derivati, cioè i bisogni di libertà e di
autorealizzazione.<o:p></o:p></b></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">Sono le donne della sua vita, la madre, la moglie, la
figlia, che, in una fase precisa - di cui diremo -, ognuna in modo diverso, più
o meno consapevolmente, limitano quei bisogni o ne impediscono la
gratificazione. Donne che egli ama e verso le quali sente di avere dei doveri,
cui adesso {la cinquantina, età dell'andropausa e di bilanci punto o poco
rassicuranti) vorrebbe "disubbidire". Ma slacciarsene significa
provare sensi di colpa e rimorsi, che bisogna far ricadere sulle donne col suo
suicidio, per far sentire colpevoli loro e punirle cosi delle sue mancate
gratificazioni. un suicidio, quindi, come mancanza di gratificazioni.<o:p></o:p></span></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">Ma, come accennavamo, sintomatica e pregiudiziale è la
fase della vita in cui l'io narrante si trova, vita all'improvviso invasa dallo
spauracchio dell'invecchiamento e della caducità fisica, della perdita del
vigore giovanile, della paura della morte e/o della malattia organica
debilitante e umiliante (ecco allora il suicidio come fuga da
quell'insopportabile angoscia). Su questo versante il romanzo è
ineluttabilmente, irrimediabilmente e archetipicamente (ma anche deliziosamente)
di segno maschile. un maschio in crisi viene sezionato da Tomizza con un
bisturi crudele e (auto) ironico contemporaneamente, cui non sfugge nulla dei
suoi tic e nevrosi, feticci e velleità, "rapporti colpevoli".
l'egoismo (la liceità delle infedeltà coniugali), l'autocommiserazione e il
vittimismo, la viltà e la crudeltà (alla compagna della vita il maschio non
perdona di invecchiare pure lei) , il masochismo (la fedeltà e le virtù della
moglie enfatizzano le colpe del marito...), l'autismo affettivo (il
crogiolamento escludente e inconcludente nel dolore di sè). Anche qui però c'è
un riscatto dalla banalità, perché la crisi è pure più profondamente
esistenziale (il "male di vivere" montaliano, la rassegnazione e
l'inerzia dell'Emilio sveviano), vieppiù esacerbata dalla condizione di eterno
"deracine",di sradicato, di inguaribile"foresto" dilaniato
fra un'ltalia "estranea e incomprensibile" e un'Istria di
"luoghi bastardi". Ed è solo dell'Istria, d'altronde - "questo
mio ultimo villaggio dove sto cercando di sciogliere i miei nodi con carta e
penna" - il paesaggio della memoria e dell'identità, nevrotizzante
non-scelta, ambigua e dolorosa, che ha bisogno di continue giustificazioni e
razionalizzazioni.. Tutti gli altri luoghi del romanzo o non esistono o hanno
l'anonimità di stanze d'albergo, di appartamenti soffocanti, di locali pubblici
qualsiasi.<o:p></o:p></span></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">Un romanzo di archetipi. Di due, il maschio in crisi e
il "deracine", abbiamo appena detto Ma ce n'è un terzo, che ci sembra
abbastanza nuovo nel panorama letterario italiano, ed è il tipo di donna
istriana del contado, identificabile nella nonna e nella madre del narratore.
Donne povere e aride come il carso da cui provengono, già fanciulle tirate su
più a rimbrotti che a carezze, da genitori dispensatori più di parsimonia che
di tenerezza. .Donne in continua competizione con gli altri e in primo luogo
con gli uomini, volitive e forti fino alla grettezza e alla millanteria
(l'autore attribuisce a loro le sue odiatissime ma insopprimibili meschinità), commedianti
incallite, lacrimose a comando, pietose con se stesse, draconiane con tutti gli
altri. Mogli e madri diligenti, ma insensibili, che lesinano su tutto, anche
sulle manifestazioni d'affetto...<o:p></o:p></span></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">E’ romanzo di artifici. Nel primo ci si imbatte subito
all'inizio, ed è quello già manzoniano (e altrui) del ritrovamento del
manoscritto (qui è il fratello del suicida a trovare gli appunti). Artificio
poi dell'abile gioco letterario in cui l'autore, smontando la tradizionale
struttura del romanzo, man mano che si avvicina all'esito finale, lo frantuma
in spezzoni sempre più brevi e schizoidi; artificio, anche, del seducente
equivoco per cui vero e pseudo-autobiografismo, realtà fattuale e onirica,
fantasia e incubo, vaneggiamento e lucidità, flusso di coscienza e presa
diretta si rincorrono, si sovrappongono, si aggrovigliano. La disarmante
sincerità di autoanalisi, la puntigliosa descrizione di particolari anche
scabrosi, i giudizi perentori come schiaffi, i sentimenti riprovevoli (il
desiderio di matricidio...), continuamente irretiscono il lettore, lo
sconcertano tenendolo in bilico tra finzione e realtà, senza mai lasciargli
discernere con certezza dove l'una finisca e incominci l'altra, ma anche senza
mai fargli dubitare del!'autenticità del sentire. Un libro che non si può
lasciare a metà, perché ci si sente avvinghiati dall'iridata regnatela di un
percorso umano e storico con cui ognuno ha qualcosa da spartire. dubbi,
incertezze, scoramenti, miserie. Un romanzo avvolgente: per l'autore un modo, a
quanto pare efficace, di rintuzzare la depressione, per i lettori una delle
opere migliori di Tomizza.<o:p></o:p></span></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Proprio in
occasione di una delle sue tante visite badiesi, Fulvio seduto nel nostro
soggiorno con Laura – la micia Jackie accoccolata sulle sue ginocchia, - ci
aveva raccontato in anteprima la trama de <b><i>L’abate Roys</i></b>. Uscito nel 1994 per i
tipi di Bompiani.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Ricorrerà ancora a
una corrispondenza privata per scrivere </span><b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Franziska (1997)</span></i></b><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">,</span><span style="font-size: 16.0pt;"> ispirato all’omonima
slovena e all’italiano Nino che comunicano per lettera consolidando un amore poi ostacolato dalle loro origini,
dalle tradizioni e dai confini.<o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: 16.0pt;">Per la rivista
fiorentina </span><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">II Portolano</span></i><i><span style="font-size: 16.0pt;"> </span></i><span style="font-size: 16.0pt;">ho recensito </span><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">nel 1997</span><span style="font-size: 16.0pt;"> il volume che
Fulvio mi ha fatto avere prontamente.<o:p></o:p></span></div>
<div align="center" class="grazia" style="text-align: center;">
<b><span style="font-size: 16.0pt;">Recensione. </span>Franziska<i> di Fulvio Tomizza</i>,
Mondadori<o:p></o:p></b></div>
<div class="grazia" style="text-align: justify;">
<b><span style="color: maroon;">E' fuor di dubbio che quando Tomizza - istriano di nascita
e triestino d'adozione -, intinge la penna nei suoi temi di frontiera per
narrare vicende di minoranze etniche che gli stanno fortemente a cuore, la sua
vena di scrittore ritrova tutto lo smalto dei bei tempi, di quando con romanzi
di elevato spessore quali <i>L'albero dei sogni</i> o <i>La miglior vita</i>,
riceveva i premi Strega e Viareggio.<br />
Con <i>Franziska</i>, sua ultima figlia letteraria, uscita per i tipi della
Mondadori, lo scrittore ci offre uno struggente e delizioso ritratto di donna,
ricostruito e immaginato sulle basi di un epistolario originale. Possiamo
constatare come la Storia corra parallela alla vicenda privata della slovena
del Carso e ci rendiamo conto, sollecitati dalla penna dell'autore, di quanto
appaia ai nostri occhi maggiormente accattivante e letterariamente valida la
vicenda privata dell'infelice protagonista, piuttosto che l'inevitabile cornice
storica reale che fa da fondale alla narrazione.<br />
La nascita eccezionale (con Francesco Giuseppe per padrino e la concessione in
dono di mille corone, avendo visto la luce nelle prime ore del secolo
ventesimo), la vita tribolata della figlia del falegname Skripac, il suo unico
grande amore deluso, offrono un vigoroso pretesto a Tomizza per scandagliare
con cuore sensibile l'animo femminile sul filo delle inesplicabili incongruenze
della vita.<br />
Ritorna a galla il clima, l'atmosfera in cui lo scrittore è viss</span>uto ed è
stato </b><b><span style="color: maroon;">educato;
dalla pagina emergono i suoi convincimenti politico-storici, la sua personale
visione della vita. Appare nella pagina a linee maiuscole tutta la crudeltà del
Novecento nei confronti della Slovenia - patria di Franziska -, un'etnia
travagliata che solo da due anni è riuscita ad avere uno Stato. La protagonista
è toccata dalle due guerre e dalla persecuzione fascista, ma noi, in quanto
lettori, pur consapevoli della necessità ineluttabile di un <i>back-ground</i>
storico, siamo soprattutto attratti dalla parte umana e sentimentale del
romanzo, dall'amore che intercorre tra la giovane e il maturo (solo negli anni,
purtroppo) Nino Ferrari, l'italiano di Cremona, ufficiale sul Carso e poi
ingegnere a Trieste, resi emotivamente partecipi di un sentimento che si snoda
difficoltoso per gli impacci di due anime e di due culture, di due mondi che,
sfiorandosi, annaspano per capirsi. L'anno fatale dell'incontro è il 1918, la
storia ha un andamento positivo fino al 1921, poi - con l'affermarsi del
fascismo - l'incendio della casa del popolo, tutte le oppressioni storiche
coincidono con i tentennamenti dell' intiepidito innamorato, un uomo amletico,
indeciso, molto più borghese di quanto egli stesso pensi di essere. Nino
Ferrari, esteriormente è colto, un po' fuori dalla norma, dotato di
un'intelligenza<i> sui generis</i>, severo giudice di quella grettezza provinciale
di cui in realtà è succube, e l'ultima crudele lettera alla sua sventurata
donna rivela tutto il suo gelido egoismo. A Franziska crolla il mondo addosso.
I passaggi psicologici che ci descrivono il dolore, la delusione, la caduta
intima della protagonista, sono di raro vigore introspettivo.<br />
Quello della giovane slovena è uno dei più bei ritratti femminili dell' attuale
letteratura, dipinto con mano delicata, attenta alle sfumature, a quei sussulti
del cuore che solo un grande scrittore sa cogliere e sublimare.<o:p></o:p></span></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><i><span style="color: maroon; font-size: 16.0pt;">Franziska,
1997, Mondadori, pp.225, lire 27.000<o:p></o:p></span></i></b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<br />
<div>
<!--[if !supportFootnotes]--><br clear="all" />
<hr align="left" size="1" width="33%" />
<!--[endif]-->
<br />
<div id="ftn1">
<div class="MsoFootnoteText">
<a href="file:///C:/Users/Grazia/Documents/Fulvio%20Tomizza.doc#_ftnref1" name="_ftn1" title=""><span class="MsoFootnoteReference"><!--[if !supportFootnotes]--><span class="MsoFootnoteReference"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 10.0pt; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">[1]</span></span><!--[endif]--></span></a> <i>Ciaf</i>, in lingua giuliana, talento<o:p></o:p></div>
</div>
<div id="ftn2">
<div class="MsoFootnoteText">
<a href="file:///C:/Users/Grazia/Documents/Fulvio%20Tomizza.doc#_ftnref2" name="_ftn2" title=""><span class="MsoFootnoteReference"><!--[if !supportFootnotes]--><span class="MsoFootnoteReference"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 10.0pt; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">[2]</span></span><!--[endif]--></span></a> nonzolo, sacrestano in
lingua croata<o:p></o:p></div>
</div>
</div>
graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-49778071701227947342013-03-17T03:31:00.003-07:002013-03-17T03:31:58.609-07:00Dissolvenza<br />
<div align="center" class="grazia" style="font-family: Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 13px;">
<b>DISSOLVENZA</b></div>
<div align="left" class="grazia" style="font-family: Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 13px;">
Ci sono voci così luminose che brillano nel buio di<span class="grazia"> una stanza. Proiettano intorno a sé ventagli irregolari di luce ora più fioca ed opalescente, ora forte come un lampo improvviso, a seconda del volume che le caratterizza nel corso della conversazione: alle vocali aperte, soprattutto a quelle, corrisponde un fascio luminoso più intenso e persistente.<br />Ho notato questo fenomeno ottico il giorno in cui ho cominciato a sentirla al telefono, non dico ad ascoltarla, perché l'ho proprio <i>sentita</i>. Non avevo notato questo fenomeno al nostro primo fortuito incontro, che pure aveva già del prodigioso, perché - ancora prima di conoscere la sua persona - mi aveva colpito la sua sagoma riflessa nella vetrina del libraio sotto casa mia. All'improvviso, tra il volume <i>Saggi</i>, <i>Prose</i>, <i>Racconti</i> di Virginia Woolf e un atlante aperto sul polo Sud, si era inserito il suo volto dai lineamenti irregolari ed allusivi, un viso interessante, pur non essendo bello nel senso classico, secondo i canoni della bellezza tradizionale: qualche ruga lieve contornava lo sguardo maliziosamente obliquo, le labbra rosse come il frutto del peccato, avevano sapore di provincia; guardata di profilo, mostrava un naso lievemente aquilino che regalava un contrastante tocco di nobiltà al suo volto. Da un piccolo turbante nero usciva un accenno di chioma riccia e mesciata, capelli ribelli che amavano andarsene per conto loro. Certamente, mentre io osservavo la sconosciuta, anche lei guardava me e - seppi poi - notava la mia chioma precocemente incanutita ("se sapessi come ti regala fascino!") e non restava indifferente al "lampo dei prati in primavera" - così si espresse in seguito - dei miei occhi verdi così spesso lodati dalle donne, da rendermi ormai indifferente alla loro ammirazione.<br />"Anche lei ama Virginia Woolf?" - mi chiese nel più naturale dei modi. Avevo fretta di correre in redazione al giornale e - seppure incuriosito da quella signora niente affatto banale - non ero disposto al<i>pour parler</i>, a quei discorsi che intrecciamo in treno o mentre aspettiamo il tram o durante una rapida corsa in ascensore, tanto per dire qualcosa, speranzosi in seguito di "rimorchiare": non abbordo mai sconosciute per la strada, né mi lascio abbordare. Eppure la voce mi uscì dalla gola, nonostante me stesso, lasciandomi meravigliato per primo.<br />"Posso offrirle un caffè?"<br />Non rispose nemmeno e mi prese sottobraccio, come se ci conoscessimo da sempre, come se fossimo vecchi amici che si ritrovavano, dopo una lunga pausa d'attesa.<br />Eppure non aveva nulla di equivoco o di pericoloso. Sentii un'immediata attrazione per lei, quando si tolse la pelliccia, all'interno del bar, e la gettò sulla spalliera di una seggiola: il suo seno forte, sottolineato dalla giacchetta blu, fermata da tre grossi bottoni, era un richiamo ancestrale, un morbido cuscino di delizie su cui avrei desiderato abbandonare subito la testa, sognando un po' di mamma e un po' di amante in un'unica edipica fantasia. Il caffè era caldo e forte, la sua voce mi entrava dentro, me ne appropriavo, prendeva spontaneamente a far parte di quell'archivio sonoro, proprietà di tutti noi, per cui ci basta quasi uno starnuto - un fulmineo <i>eccì</i> - di una persona nota, oppure un sintetico <i>sì</i>, per sapere subito di chi si tratta.<br />Scoprimmo - quasi sovrapponendo le nostre voci, nel frenetico parlare -, di avere un' origine isolana comune. Parlammo di Pirandello e Sciascia, di Tomasi di Lampedusa e di Lucio Piccolo, dell'<i>'mpanata</i>di agnello, delle <i>panelle</i> palermitane, degli arancini di riso, dell'<i>intertestualità</i> di Garcia Marquez. Litigammo blandamente su Proust che lei adorava e io trovavo e trovo stucchevole; ci riconciliammo sul caciocavallo ragusano e su Milano "capitale del capitale".<br />Era bibliotecaria in una piccola città del Veneto, per questo amava tanto i libri, almeno quanto li amo io.<br />Ci scambiammo i numeri di telefono. La giornata passò senza intoppi. La pagina, al giornale, mi riuscì soddisfacente per equilibrio nei contenuti e nell'eleganza grafica. Pranzai con un'amica di vecchia data, risposi a parecchie telefonate. Ricevetti rassicurante conferma che il mio ultimo saggio sarebbe uscito prima di Natale: una <i>routine</i> senza scossoni e senza brutte sorprese.<br />Le ombre della sera si coagulavano liquide ed insidiose dietro i vetri della finestra; il volto di una collega che vi si specchiava, passando, mi rimandò un rapido flash della sconosciuta con cui tanto rapidamente ero entrato nell'orbita delle "affinità elettive", quelle per cui una persona che ad altri può apparire insignificante, a noi parla un linguaggio speciale ed ineludibile, un richiamo a cui non vogliamo sottrarci.<br />La sera stessa la chiamai al telefono. Ero sdraiato nel divano del salotto, in penombra e avevo voglia della sua voce "interna". Notai subito quei fasci, ora sfatti in un'opalescenza che poteva accendersi in luci più intense, e ne provai un godimento interiore di rara natura. Ripensai sensualmente a quei tre bottoni sul suo petto, chiusi da un'asola che si poteva facilmente aprire.<br />M'invitò nel suo cottage in montagna. La raggiunsi dopo una settimana, e finalmente slacciai, non solo con la fantasia, quegli ostili bottoni, divenuti docili, sotto la stretta delle mie dita. Il paesaggio da cartolina natalizia era persino troppo oleografico per essere veramente di mio gusto: candore di neve abbagliante, caminetto acceso con fiamma purificatrice, pranzetto al lume di candela. Detesto la banalità, gli auguri di buoncompleanno, le frasi fatte, il <i>déjà dit</i>, lo scontato comunque.<br />"Preferiresti la pioggia? Una casa fredda? Un'amante che ti resiste e ti fa faticare a sedurla?"<br />Non le risposi. Ero comunque contento di essere lì, anche se un po' troppo avviluppato, forse, dalle sue effusioni, purtuttavia non ero scontento del farla così felice. Suvvia, devo ammetterlo, anch'io stavo bene con lei. Avevamo molte cose in comune.<br />Da Milano le mandai un biglietto - assieme al mio ultimo libro, odoroso di stampa fresca. "Ho sepolto il mio cuore dentro le vecchie mura" - le scrissi. Sapevo che amava Quasimodo e che avrebbe gradito il mio messaggio, non meno del libro che commentò in una dettagliata lettera in cui non sapeva più se lodare maggiormente "l'eleganza della prosa vaporosa o lo spessore dei contenuti umanissimi, per non parlare dell'originalità di orizzonti che sapevo aprire davanti agli occhi dei lettori".<br />Non sapeva solo coccolarmi, sapeva a sua volta scrivere, e questo me la rendeva più vicina.<br />Il giornale mi chiamava a gran voce. Sul tavolo mi attendeva una pila di articoli da "passare" - come diciamo noi in gergo - e un saggio irto di difficoltà, sul "caso" del "Gattopardo" da recensire. Il telefono squillava in continuazione, la segreteria era affollata di messaggi, la schiena mi faceva male, i grovigli della vita mi si abbarbicavano addosso.<br />Avevo voglia di stare un po' da solo e soprattutto di stare in pace.<br />Passarono i giorni. Anche le notti.<br />Feci un sogno terribile, peggio di un'allucinazione. Nel cuore della notte appresi da un quotidiano che la mia ormai conosciutissima - e da me un po' trascurata sconosciuta - era morta. Ma come? In che modo? Nel letto mi agitai febbrilmente. Mi vidi affannosamente in viaggio per andare nella sua piccola città. La corsa in macchina fu affannosa. C'era la nebbia. Un sudario felpato e inquietante rendeva evanescente la realtà intorno a me. Sembrava salire dal serpente liquido - un sinuoso canale che tagliava in due la città. Le vie erano deserte. All'improvviso vidi un corteo scuro con una bara davanti portata a spalle; nell'aria fluttuavano nastri d'argento, come virgole di luce: sopra vi si distingueva appena un'illeggibile scritta.<br />Mi svegliai tutto sudato. Dopotutto era stato solo un sogno. Mi tornò la voglia della sua voce luminosa, delle sue parole tenere che io non contraccambiavo mai. Che bisogno ce n'era? Se le telefonavo, non significava che la stavo pensando? Che bisogno c'era di leziose banalità? Oddio che lagna le donne con questo loro bisogno di "infiorare" tutto, di "romanticizzare" anche gli avvenimenti più naturali della vita!<br />Uscii fischiettando, ancora felice di avere soltanto sognato.<br />Nella "nostra" vetrina - intendo quella del libraio - la vidi di profilo: sulla mezza fronte i riccioli erano scompigliati in un'arruffata frangetta che la ringiovaniva, la mezza bocca, eccezionalmente senza rossetto, era atteggiata a sorriso e così l'unico occhio che mi era dato vedere, sprigionava serenità. Sollevò una mano - voltandosi di faccia - nel consueto gesto di accarezzarmi una guancia. Mi volsi per abbracciarla, ma di spalle non avevo nessuno, o meglio solo un gattino grigio stava attraversando la strada in una lenta, onirica dissolvenza.</span></div>
<div align="center" class="grazia" style="font-family: Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 13px;">
<br />* * *</div>
<div align="left" class="grazia" style="font-family: Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 13px;">
Sono passati molti anni, ormai. Continuo la mia vita di redazione: le piccole beghe con i colleghi, qualche amore occasionale, ancora saggi pubblicati, libri altrui recensiti, viaggi tra Milano e l'isola, spicchio di "irredimibile" terra dove chiuderò i miei giorni.<br />Proprio ieri, quando l'imbrunire immalinconisce le luci e dilata le ombre, nell'ora in cui il passato cerca di uscire dal vaso dei nostri ricordi, rovinandoci magari il cadere del giorno, proprio ieri - dicevo -, ho risentito quella voce, o meglio la breve risata di quella mia donna conosciuta e persa nella vetrina del libraio. Tutto è nato da un'interferenza telefonica. Avevo alzato la cornetta, dopo uno squillo irregolare, gracchiante e strozzato, un suono anomalo che poteva far pensare ad un errore.<br />"Sono stata in centro ad acquistare una cravatta originalissima per un uomo affascinante, superspeciale in piedi e a letto, conosciuto... [<i>e qui un sacco di cisccisczzzcisc si sostituirono alla voce</i>]. Se la merita proprio, questa seta di Hermès, essendo un maschio di una razza ormai in estinzione".<br />Era proprio lei? Con chi stava parlando?<br />Provai un morso di gelosia, inusitato per la mia concezione di vita: ho sempre vissuto per me stesso, volando in cieli liberi, avulso da legami avvinghianti, e non ho mai preteso fedeltà dalla controparte. Che cosa mi stava succedendo? Invecchio, ho pensato. Che sia per questo - mi sono domandato anche -, che non "vedo" più quella voce, ma la sento, o meglio la odo soltanto? Che sia per questo che non proietta più per me lampi luminosi, ora intensi, ora sfocati come bagliori di luna?<br />Dai rumori di fondo riemerse la voce.<br />"Quando gliela consegnerai?"<br />"Stanotte. Dopo una cena al..." [<i>ancora rumori, brusio, stridori di fondo</i>]<br />Sembrava fosse <i>lei</i>, la mia donna di allora, sfumata nel nulla, in conversazione con un'amica. In effetti solo con una sua simile, con una donna, avrebbe potuto magnificare o denigrare il sesso opposto: quelle che stavo rubando erano confidenze del tutto femminili.<br />Ero sempre più curioso, avrei dato un anno di stipendio (facciamo sei mesi, visto che non mi piace sprecare), pur di conoscere l'identità di quell'uomo così speciale che stava oscurando la mia fama.<br />Alzai gli occhi e mi accorsi - vedendola ben inquadrata nello spazio aperto della finestra di fronte -, che a posare il ricevitore, con mossa rapida nella forcella, era una donna, che, pur notandola solo di spalle, aveva qualcosa, anzi molto di familiare. La taglia era simile a quella della donna del passato, scomparsa misteriosamente allora dal mio orizzonte, come fortuitamente sembrava ora essere riapparsa. Decisi di scendere precipitosamente le scale. Uscimmo quasi in contemporanea dai due portoni di fronte. Per mia fortuna caracollava su tacchi alti che le rallentavano il passo, portava in testa un turbantino simile a quello del giorno in cui ci eravamo conosciuti. La falcata era molle, la curva dei fianchi piena, come allora. Il ricordo del suo seno dolce mi procurò un sussulto di turbamento. Rividi la sua piccola stanza al cottage in montagna, mi tornò addosso il profumo della sua pelle d'ambra, il sapore della sua bocca, l'aroma dello champagne bevuto dalla stessa coppa.. Tutto in un lampo il tempo trascorso sgorgava fuori dalla moviola in cui mi illudevo di averlo imprigionato.<br />Salì rapida e leggera sopra un autobus all'angolo, un tacco ribelle le si impigliò nel predellino. Questo piccolo contrattempo mi diede modo di salire a mia volta, senza che lei si voltasse. Presi posto qualche fila più indietro, vicino a una vecchia che portava un micio tigrato dentro una gabbietta: la mia donna e il gatto camminano spesso di pari passo, pensai.<br />Scese dopo tre fermate, la seguii discretamente, tenendo sempre una distanza di sicurezza. Reggeva al braccio una borsetta elegante, affiancata ad un sacchetto colorato con una grande scritta centrale. Sarà la confezione con la famosa cravatta per l'uomo migliore del mondo, pensai indispettito. Entrò in un piccolo ristorante a luci complici, di quelle che attenuano le rughe in volto alle signore e rendono sfumati i numeri del conto salato, agli occhi dei loro accompagnatori. Un cameriere mi fece segno che non c'era posto. Gli allungai un bigliettone, che per magia, fece subito comparire un tavolo libero per me. Mangiai svogliato, tenendo sempre d'occhio la mia "inseguita" e il suo "specialissimo". Bevevano ridendo, spensierati. Lui le teneva una mano. Quando se la portò alle labbra per baciarla, non ne potei più, fu più forte di me. Mi avvicinai concitato al loro posto e gridai forte il nome della donna che mi aveva sostituito con un uomo che a me parve abbastanza banale. L'uomo si alzò con espressione preoccupata. La donna alzò gli occhi, più chiari di come li ricordavo, ora privi di quella tenue raggiera di rughe che mi intenerivano allora, e - con voce rattristata -, mi disse: "Sono la sorella. Spesso la gente ci confonde. Sembra che ci somigliamo molto. Lei non c'è più; è morta nel suo cottage di montagna, seduta davanti al caminetto, stava sorseggiando l'ultima coppa di champagne, mentre leggeva <i>Dissolvenza</i>, scritto da un giornalista che le aveva prosciugato il cuore".</div>
<div align="left" class="grazia" style="font-family: Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 13px;">
<b><i>Grazia Giordani</i></b></div>
<div align="center" class="grazia" style="font-family: Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 13px;">
<br /></div>
graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-15303470146165184422012-10-21T01:45:00.000-07:002012-10-21T01:45:04.218-07:00La "balconosa" Badia<div align="center" class="grazia" style="-webkit-text-size-adjust: auto; -webkit-text-stroke-width: 0px; color: black; font-size-adjust: none; font-stretch: normal; font: 13px/normal Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; letter-spacing: normal; orphans: 2; text-indent: 0px; text-transform: none; white-space: normal; widows: 2; word-spacing: 0px;">
<b><br />Balconi</b></div>
<div align="left" class="grazia" style="-webkit-text-size-adjust: auto; -webkit-text-stroke-width: 0px; color: black; font-size-adjust: none; font-stretch: normal; font: 13px/normal Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; letter-spacing: normal; orphans: 2; text-indent: 0px; text-transform: none; white-space: normal; widows: 2; word-spacing: 0px;">
Come certi popoli si riconoscono di primo acchito per certi caratteri somatici o per il colore della pelle, così alcuni luoghi geografici o alcune città, hanno un loro inconfutabile biglietto da visita che è quello delle loro caratteristiche architettoniche.<br />
Per questo motivo Carducci - innamorato di Bologna, sua città adottiva - la definiva "porticosa", creando un simpatico neologismo, atto a sottolineare la grande ricchezza di portici del capoluogo emiliano. Parafrasando il Poeta, qualcuno ha definito "balconosa" Badia, pare infatti che questa piccola citta' bagnata da Adige e Adigetto, sia ricca in maniera particolare di balconi e davanzali, veroni gentili che in primavera spesso appaiono fioriti, quasi pensili giardini.<br />
Questa caratteristica la accomuna a Lendinara e Rovigo, pure ricche di leggiadri veroni con spalliere sempre bel lavorate, mai identici, mai monotoni, come se questi prolungamenti di dimora verso l'esterno , volessero aggiungere una nota in più, un utile ornamento alle case.<br />
Se oggi i davanzali hanno una pura funzione estetica, un tempo - nei secoli scorsi - erano una valvola di sfogo verso l'esterno, soprattutto per il mondo femminile. Come avrebbe fatto a dialogare Giulietta con il suo Romeo, senza la complicità di un verone? Shakespeare avrebbe avuto qualche difficoltà a scrivere altrimenti la sua celebre tragedia. Le donne, fino al secolo scorso, soprattutto nei ceti elevati, uscivano meno frequentemente sole per strada e avevano così meno opportunità di incontrare corteggiatori ed innamorati. Il balcone era dunque un complice salotto all'aperto per scambiare saluti ed occhiate, era un luogo di ritrovo per "ciacole" anche rimbalzate da un verone all'altro, insomma era un tramite per socializzare, uscire, pur restando in casa, guardar fuori senza troppo compromettersi, non del tutto svelate da rampicanti fioriti o folto fogliame nei vasi.<br />
Oggi che il costume è cambiato e le donne vivono maggiori libertà, i balconi restano anche nelle nuove costruzioni, più essenziali nella forma, meno elaborati, più sobri nell'impianto. Sono ancora aperture verso la luce dell'estate, proiezioni che interrompono la chiusura delle stanze. Forse racchiudono un sottile messaggio freudiano, un invito alla comunicazione che la terra polesana sa ancora intendere ed ascoltare, una voglia ostinata di non rompere del tutto con il passato, magari tenendosi strettamente afferrati proprio alla ringhiera di un balcone.</div>
<div align="left" class="grazia" style="-webkit-text-size-adjust: auto; -webkit-text-stroke-width: 0px; color: black; font-size-adjust: none; font-stretch: normal; font: 13px/normal Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; letter-spacing: normal; orphans: 2; text-indent: 0px; text-transform: none; white-space: normal; widows: 2; word-spacing: 0px;">
<b><i>Grazia Giordani</i></b></div>
<div align="left" class="grazia" style="-webkit-text-size-adjust: auto; -webkit-text-stroke-width: 0px; color: black; font-size-adjust: none; font-stretch: normal; font: 13px/normal Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif; letter-spacing: normal; orphans: 2; text-indent: 0px; text-transform: none; white-space: normal; widows: 2; word-spacing: 0px;">
<span style="font-size: xx-small;">Data pubblicazione su Web:<span class="Apple-converted-space"> </span><b>27 Dicembre 2003</b></span></div>
graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-70495740855838227282012-10-13T07:13:00.000-07:002012-10-13T07:13:16.282-07:00Deliziosa serata al Caffè Letterario "Antica Rampa" di Badia<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.beniculturalionline.it/components/com_wordpress/wp/wp-content/uploads/2012/08/Cristini-1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.beniculturalionline.it/components/com_wordpress/wp/wp-content/uploads/2012/08/Cristini-1.jpg" /></a></div>
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Ancora una serata molto piacevole al Caffè letterario "Antica Rampa" di Badia Polesine, organizzata dall'infaticabile Gilberto Moretti che - dall'arte, alla letteratura, passando attraverso temi anche meno impegnativi - va vivacizzando le uscite pomeridiano-serali dei veneti e non solo, coadiuvato dalla bellezza architettonica e dal retroterra storico in cui avvengono gli incontri.</div>
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Ieri sera, un piacevolissimo duetto Alberto Cristini-Marco Bottoni ha coinvolto un pubblico molto interessato e divertito dalla verve dell'artista e del poeta. L'esposizione dei quadri e delle sculture di Cristini ha fatto da policromo fondale, nella prima parte della serata, regalando ai fruitori l'illusione di viaggiare su eleganti imbarcazioni, immerse in un liquido elemento che fa sognare mari lontani, onirica proiezione dell'artista, estroso creatore della "nuoto-pittura". A questo creativo rodigino non bastano tele e pennelli. Predilige anche assemblare discipline ginnico artistiche con un piglio che sarebbe piaciuto ai futuristi, anche se il suo linguaggio, pur con qualche excursus nell'informale, ama sostare dentro un'ispirazione poetico-verista, mai fotografica, ovvero vieta riproduzione del reale.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
Deliziosi i suoi bronzetti, così dinamici ed espressivi.</div>
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Marco Bottoni, pluripremiato poeta di Castelmassa (RO) - in perfetta linea con la tradizione dei medici scrittori - ha presentato la sua silloge <i>Regno: Animalia </i>(Centro Studi Tindari Patti,pp.146, euro 10) con un sense of humour veramente travolgente. Sembrava di essere a teatro, coinvolti dalla sapiente ironia di questo insolito autore che sa regalare <i>levitas</i> anche agli argomenti più ostici e difficili.</div>
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Interessante la premessa della sua silloge che ci conduce per mano dentro i multiformi intenti dell'autore, facendoli nostri, perché si può imparare anche sorridendo. E Bottoni ne è ben consapevole.</div>
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Un rilievo speciale merita l'atmosfera che si era creata nel corso del pomeriggio-sera. Un clima amichevole e intimista, l'ossimoro di una convivialità contagiosa come una <i>deliziosa malattia.</i></div>
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<i><b>Grazia Giordani</b></i></div>
graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-71395803928004496802012-03-13T01:01:00.000-07:002012-03-13T01:01:37.746-07:00Il destino dei Malou<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a class="rg_hl" href="http://www.google.it/imgres?um=1&hl=it&sa=N&biw=1058&bih=521&tbm=isch&tbnid=bauKsdBbxP_yvM:&imgrefurl=http://www.emonsaudiolibri.it/autori-e-voci/autori/georges-simenon&docid=UoYhlDW-JhdhuM&imgurl=http://www.emonsaudiolibri.it/img/articles/autori_lettori/portrait/simenon_georges.jpg&w=375&h=487&ei=mv5eT9T7DoX2sgaRyey8CQ&zoom=1" id="rg_hl" style="height: 256px; margin-left: 1em; margin-right: 1em; width: 197px;"><img alt="" class="rg_hi" data-height="256" data-width="197" height="256" id="rg_hi" src="https://encrypted-tbn2.google.com/images?q=tbn:ANd9GcQ2tAGF9YT00Q8Z6CcXasLGo0qiRpOwA-cRc9pri_cNbHKSl7wdaw" style="height: 256px; width: 197px;" width="197" /></a></div><ul class="rg_ul" data-cnt="12" data-pg="1"><div class="rg_hv" data-initialized="1" id="rg_h" style="left: 510px; top: 136px; width: 197px;"><div class="rg_hc" id="rg_hc"></div></div></ul><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Leggiamo molto coinvolti, nella bella traduzione di Federica di Lella e Maria Laura Vanorio, ancora un romanzo <i>americano</i> di Georges Simenon (Liegi, 1903-Losanna 1989). Scritto in Florida nel 1947 e stampato lo stesso anno, <i>Il destino dei Malou</i> (pp.200, euro18), ci viene proposto sempre da Adelphi, che dal 1985 ne cura la riedizione dell’opera omnia. Una delle novità che troviamo in queste pagine, rispetto ad altri romanzi dell’autore, è il dualismo di interpretazione, quasi un <i>doublage</i>, rispetto all’indole e al carattere del personaggio che conosciamo <i>post mortem</i>, il tanto chiacchierato Eugène Malou, riguardo all’ottica e all’angolo di visuale di chi lo sta considerando. <o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">E’ uno squallido truffatore l’affarista suicida già nelle prime battute della narrazione – oggi considerato un palazzinaro -, oppure un uomo che venuto dal niente, dalla suburra della società, si è sacrificato fino allo strazio per dare agio e benessere alla propria famiglia? A Simenon sono sempre piaciute queste contorsioni psicologiche, questo rimescolio nei meandri dell’animo, poiché sa bene quanto sia contorta l’umanità e quanto il grigio sia più attendibile del bianco o del nero, in quanto a colore del cuore dei suoi simili.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Il romanzo si apre con una revolverata. Alle quattro e un quarto di un caliginoso novembre, in un paesino alle porte di Parigi, Eugène Malou esce da un aristocratico palazzo di rue de Moulins e si spara un colpo in faccia. Sarà accolto agonizzante nella vicina farmacia e lì chiuderà i suoi giorni, dopo terribile strazio, sotto gli occhi dei suoi compaesani che di lui solo sembrano sapere la disgrazia economica in cui è caduto, quale imprenditore edile, convinti della sua mancanza di integrità morale. Pubblica opinione fomentata dalla pessima campagna di stampa del <i>Phare du centre</i>, il quotidiano locale che sembra aver inzuppato il pane dentro episodi torbidi ed infamanti del passato dell’uomo che si è tolto la vita.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Tra la frotta di studenti che, in quel momento, passa casualmente per strada, c’è il diciassettenne Alain Malou che resterà per sempre vulnerato dal terribile spettacolo della morte del padre. Ora, spetta proprio a lui di comunicare in casa la notizia. Incontrerà solo finzione di dolore da parte di una madre fatua e vanesia (che, per associazione d’idee assimiliamo a Fanny Némirovsky, madre della grande Irène, tante volte protagonista dei suoi romanzi). Poco dolore anche da parte del fratello di primo letto di Alain, preso dalle sue modeste ambizioni di vita e, ancor meno, da Corine, la carnale e dissoluta sorella. Una famiglia avvelenata dai rancori che, morto Eugène, non tarda a sbranarsi, arraffando quello che può, quando ormai non vi è più danaro, nemmeno per il funerale. E Simenon è maestro nell’intingere la penna dentro la mediocrità e la bassezza di alcuni suoi personaggi. Alain, li osserva in silenzio. Si sente diverso da loro e decide, nonostante tutto, di restare in quel paese di provincia ostile, cercando la verità sul padre, scegliendosi un destino diverso. Grazie a due amici veri del padre così infangato, ricostruisce una vita fatta di espedienti e di affari al limite del reato. Ma scopre anche un padre che ha dato la propria vita per il benessere della sua famiglia, un ragazzo nato poverissimo che ha lottato per raggiungere una posizione ai piani alti. Un epilogo inconsueto per l’autore belga che ci aveva abituati ai finali cupi e tragici, perché nel giovane Alain c’è il germe del perdono e della speranza in una vita migliore, nonostante le umiliazioni inflittegli dal crudele oscurantismo della piccola borghesia che lo attornia e non lo favorisce di certo.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 16.0pt; line-height: 115%;">Grazia Giordani<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><br />
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</div>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-42127327626391272572012-02-19T03:15:00.001-08:002012-02-19T06:18:18.136-08:00Una serata di grande spessore culturale al caffè letterario "Antica Rampa"<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjKWZ4PVhX-Jr0b0rWMScRqUlqjMjsYobkBbPrTmnGHV999KC4_gTgZVEmlmkjTGz-jgcqaO0Nu8Qn_xXXSlNkHcMpGMMV9T1Xqjfnm-uV002D4qvXDvCXsJeQLJ8NpOLL-rzGxwuSNH6k/s1600/thb.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="171" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjKWZ4PVhX-Jr0b0rWMScRqUlqjMjsYobkBbPrTmnGHV999KC4_gTgZVEmlmkjTGz-jgcqaO0Nu8Qn_xXXSlNkHcMpGMMV9T1Xqjfnm-uV002D4qvXDvCXsJeQLJ8NpOLL-rzGxwuSNH6k/s320/thb.jpg" width="320" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br />
</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br />
</div>Una serata veramente di grande spessore culturale e nel contempo divulgativa in maniera intelligente, quella che l'altra sera ci ha offerto il caffè letterario "Antica Rampa " di Badia Polesine (RO) con la presentazione del volume <i>Il Seprio nel Medioevo</i> (Il Cerchio, pp.102, euro 18).<br />
La storica medievista Elena Percivaldi (curatrice, fra l'altro, del mosaico di saggi che compongono l'opera) e l'archeologo Cristiano Brandolini hanno saputo porgere all'uditorio - fra cui è figurato persino un bimbo di otto anni ! - un excursus vivace, colto e sapiente atto a sfatare i luoghi comuni fra cui brilla quello dell'oscurantismo riferito al Medioevo. La Storia, infatti, non è costituita da scompartimenti stagni, epoche indipendenti e slegate fra loro, ma è proprio dal <i>continuun</i> che ne possiamo evincere valenza e significato.<br />
"Questo volume ripercorre la storia dell'antico <i>Comitatus</i> - prima ancora <i>Iudiciaria </i> - del Serpio nel Medioevo, quando quest'area ora appartenente alla Provincia di Varese, rivestiva un ruolo politico, strategico, militare ed economico commerciale di primaria importanza. I saggi qui raccolti forniscono un quadro completo sulle vicende del Seprio e del suo centro eponimo, <i>Castrum Sibrium</i>, oggi parco archeologico ., ma un tempo fortezza cardine del sistema difensivo subalpino, distrutta nel 1287 da Ottone Visconti e mai più riedificata".<br />
Nonostante il momento di crisi economica che la nostra Nazione sta attraversando, questi recuperi del nostro passato, estesi anche e soprattutto in luoghi inediti, atti a farci prendere sempre maggior consapevolezza della nostra identità e della continuità del fluire degli avvenimenti che ci hanno preceduto, dovrebbe prendere sempre più vita, rafforzato dall'impegno di studiosi come quelli coordinati da Elena Percivaldi e sottolineato dall'intuizione di un editore che sa vedere lontano come Adolfo Morganti del raffinato <i>IL CERCHIO.</i><br />
<b>Grazia Giordani</b>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-15228872239591734832012-01-28T10:20:00.001-08:002012-01-29T07:42:16.145-08:00difficoltàHo difficoltà a rientraregraziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-26206780717513946652012-01-15T08:29:00.000-08:002012-01-15T08:37:29.681-08:00Se fosse per sempre<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://t0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQ3bH8NWYDQ1pP7AnjRi5KsqVB_Vx3NK_HeFORwD46BwIek5sQ6AQ" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://t0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQ3bH8NWYDQ1pP7AnjRi5KsqVB_Vx3NK_HeFORwD46BwIek5sQ6AQ" /></a></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Chi si è commosso alla vista delle scene tanto toccanti quanto surreali del celebre film <i>Ghost </i>– Patrick Swayze e Demi Moore protagonisti – ritroverà parte di quel clima iperomantico nel romanzo <i>Se fosse per sempre </i>dell’esordiente Tara Hudson (Editrice Nord, pp.360, euro 18,60, traduzione di Paola Bonini). Fin da ragazzina, l’autrice, nata e cresciuta in Oklahoma, è stata una gran lettrice di storie di fantasmi. Da questa sua propensione è nata la sua opera prima, salutata da un grande successo internazionale. Forse perché c’è una certa parte di lettori, soprattutto fra i giovani, orientata verso il genere fantasy, dove tutto può accadere. <o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;"> Subito, nell’incipit, incontriamo Amelia, morta diciottenne, che da molti anni si aggira inquieta sulla riva del fiume. Ha perso la cognizione del tempo e nulla ricorda del suo passato. Non sa più niente dei suoi familiari e del suo stesso cognome. Insomma, una perdita d’identità assoluta. Sa rivivere solo l’angoscia della propria morte, crede per annegamento, inghiottita dalle acque del fiume. Un giorno, improvvisamente uscita dalla sua solipsistica situazione, si accorge che un ragazzo sta annegando e lotta per sopravvivere. Decide di aiutarlo. Come per magia, il giovane, superando la situazione di pericolo, si dirige verso Amelia e la <i>vede</i> e ne sente la voce. In quell’istante, l’infelice ragazza capisce di non essere più sola, avendo trovato qualcuno di cui fidarsi, oltre a tutto disposto a scoprire chi l’ha uccisa, sfidando le forze oscure che incombono e che la stanno minacciando.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Piacerà – dicevo – questa scrittura sentimentale ed immediata a chi privilegia gli amori impossibili che fanno evadere dal grigiore del reale e a chi ama tuffarsi nel mistero che accompagna il lettore fino all’epilogo. L’<i>allure</i> gotica della presenza di fantasmi è stata molto presente nella letteratura dell’Ottocento. <i>Cime tempestose</i> di Emily Bronte ne è l’esempio più eletto, ma in quel caso abbiamo sconfinato nel pianeta della letteratura d’eccellenza. Il romanzo della Hudson, seppur gradevole, non ha di queste pretese, ma sa darci l’esempio di un tenero idillio tra la rincuorata Amelia e il generoso Joshua, quasi un sodalizio tra un uomo reale e una ragazza fantasma, divenuti inseparabili nella lotta contro nemici, quali spiriti maligni e sette di streghe, e veggenti con capacità medianiche.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Al di là del tono di favola nera, dobbiamo riconoscere all’autrice, di aver saputo regalare un nuovo spessore – stavamo per dire umano – scordandoci che si tratta di un fantasma, ad Amelia che ci appare dotata di una femminile delicatezza di sentire.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Chissà quanti uomini reali gradirebbero incontrare, nella loro quotidiana esistenza, una fantasmina tanto sensibile ed amorevole.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;">Grazia Giordani</span></b><span style="font-family: 'Times New Roman', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;"> <o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><br />
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</div>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-28999997189805428342012-01-06T01:39:00.000-08:002012-01-06T01:39:30.099-08:00PAURA<ul class="rg_ul" data-cnt="23" data-pg="1"><div class="rg_hv" data-initialized="1" id="rg_h" style="left: 600px; top: 124px; width: 160px;"><div class="rg_hc" id="rg_hc"></div></div></ul><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a class="rg_hl" href="http://www.google.it/imgres?q=paura+zweig&um=1&hl=it&sa=N&biw=1249&bih=615&tbm=isch&tbnid=4rjz2qtA87BIkM:&imgrefurl=http://scaffalesegreto.hoepli.it/paura-di-stefan-zweig&docid=6Ro-mhR4HkHcuM&imgurl=http://scaffalesegreto.hoepli.it/wp-content/uploads/paura.jpg&w=200&h=336&ei=m8AGT6yEIZGk4ASA_aDfBA&zoom=1" id="rg_hl" style="height: 268px; margin-left: 1em; margin-right: 1em; width: 160px;"><img alt="" class="rg_hi" data-height="268" data-width="160" height="268" id="rg_hi" src="http://t3.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcS4kqC5gne4d_EiJMeg2sdOgXHscU--6auWtlk_g4qxYx1SeuwK" style="height: 268px; width: 160px;" width="160" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br />
</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br />
</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a class="rg_hl" href="http://www.google.it/imgres?q=paura+zweig&um=1&hl=it&sa=N&biw=1249&bih=615&tbm=isch&tbnid=Tta8BCbtJujz1M:&imgrefurl=http://1337x.org/torrent/48642/La-Paura-Roberto-Rossellini-TNTVILLAGE/&docid=TwKtSRrVLDDVrM&imgurl=http://img251.imageshack.us/img251/1269/cartelyanocreoenelamor0.jpg&w=300&h=425&ei=m8AGT6yEIZGk4ASA_aDfBA&zoom=1" id="rg_hl" style="height: 267px; margin-left: 1em; margin-right: 1em; width: 189px;"><img alt="" class="rg_hi" data-height="267" data-width="189" height="267" id="rg_hi" 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<div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 18.0pt; line-height: 115%;">Chi ha apprezzato <i>Lettera di una sconosciuta</i> o <i>Bruciante segreto</i> di Stefan Zweig (Vienna 1881- Petròpolis Brasile 1942), ritroverà in <i>Paura</i> (pp.113, euro 10, traduzione di Ada Vigliani) la stessa marca semantica di un autore quasi dimenticato a cui Adelphi sta ridando luce con lodevole impegno.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 18.0pt; line-height: 115%;">Ebreo, austriaco, cosmopolita, Zweig è stato un notevole intellettuale europeo che nel 1942 si suicidò – insieme con la seconda giovane moglie – in Brasile, dove angosciato dalle persecuzioni razziali, si era rifugiato, nell’illusione di ritrovare salvezza e soprattutto serenità. Straordinario biografo (la sua autobiografia è un pregevole ritratto d’epoca, pieno di nostalgia per lo splendido autunno dell’era asburgica), come romanziere e narratore, forse indulge, talvolta, in eccessi di enfasi, “iper sentimentali”. Ciò non toglie che i suoi romanzi e i suoi racconti siano acute indagini psicologiche, veri ritratti di angosce, miste ad incubi e a deliri della passione. Maestro della suspense, in <i>Paura</i>, tocca il tema dell’adulterio femminile, inducendoci a ripensare a <i>Madame Bovary</i>, l’adultera per noia e ad <i>Anna Karenina</i> che ha tradito sopraffatta da un fato superiore, cui non ha potuto sfuggire.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 18.0pt; line-height: 115%;">Irene Wagner, l’eroina di Zweig, è un’affascinante giovane signora dell’alta borghesia, fin de siècle, moglie di un famoso avvocato dai modi convenzionali e severi, vive in una lussuosa casa, con servitù, madre di due figli piccoli, cade, quasi inconsapevolmente, tra le braccia di un amante, accettato più per annoiata vanità che per passione. Vive in maniera inerte nella ‹‹vacua inoperosità della gente inoperosa››. Ma, la sua vita è distrutta, quando, uscendo dalla casa dell’amante, viene sfacciatamente affrontata da una donna che – dando prova di conoscerla bene, nome ed indirizzo compresi – comincia a ricattarla, estorcendole cospicue somme di danaro e persino il prezioso anello di fidanzamento.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 18.0pt; line-height: 115%;">La paura, come un crescendo sinfonico, viene descritta dall’autore con tale maestria da incollare il lettore alla pagina, tanto da aver incantato registi del passato che ne hanno tratto varie versioni cinematografiche. Nel 1954 persino Roberto Rossellini si occuperà di questo avvincente soggetto, allontanandosi, purtroppo, molto dalla trama di Zweig, dando corpo all’ultimo lavoro nato dal sodalizio artistico e privato tra il regista romano e l’attrice svedese Ingrid Bergman.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 18.0pt; line-height: 115%;">Tornando alla protagonista del racconto, Irene è sempre più perseguitata dalla ricattatrice e lo sguardo indagatore del marito le crea apprensioni sempre più vertiginose. Infatti, è una vertigine di disperanti angosce dentro cui sempre più si sente sprofondare, come se la sua vita fosse riflessa da specchi deformanti.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 18.0pt; line-height: 115%;">Che il marito cominci a sospettare? Che cerchi, con il suo atteggiamento, d’invitarla alla confessione? Che sia l’amante, ormai disprezzato e del tutto messo da parte, il mandante della ricattatrice? Insieme ad Irene anche noi sospettiamo ed accavalliamo ipotesi, ricalcando i passi falsi della fedifraga, poco inclini a simpatizzare per lei, suggestionati da come sa porgercela l’autore, quando arriva l’insospettabile <i>coup de théậtre</i> a lasciarci senza fiato, contenti dell’epilogo e scontenti che sia finita la narrazione.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 20.0pt; line-height: 115%;">Grazia Giordani</span></b><i><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: 20.0pt; line-height: 115%;"> <o:p></o:p></span></i></div>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-76592841991263011542011-12-27T09:26:00.000-08:002011-12-27T09:31:34.273-08:00I cani e i lupi<strong>I cani e i lupi</strong><i> di Irène Némirovsky</i>, Adelp<img alt="" class="rg_hi" data-height="225" data-width="225" height="225" id="rg_hi" src="http://t2.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcSX9koTbTiQL_Ft6J6SD1EpZWOwtCYyByJZdEUmPHY_swNUcc_CjA" style="height: 225px; width: 225px;" width="225" />hi <br />
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<div align="left" class="grazia"><b>Némirovsky, il romanzo straziato dalla paura</b><br />
Ci sono romanzi che sollevano un polverone appena pubblicati e poi cadono nel dimenticatoio, altri che mantengono un certo “magnetismo”, anche se riproposti molti anni dopo la loro prima uscita. Questo ci parrebbe essere il caso di I cani e i lupi di Irène Némirovsky (Titolo originale: “Les chiens et les Loups”, pp.234, euro 18,50), l’ultimo romanzo pubblicato in vita dall’autrice, prima della deportazione ad Auschwitz che Adelphi, intento a ripubblicare l’opera omnia di questa donna dalla penna geniale – di cui soprattutto ricordiamo il capolavoro Suite francese - ha portato in Italia per noi nella bella traduzione di Marina di Leo. Un polverone all’epoca, dicevamo, addirittura con accuse di antisemitismo e persino di captatio benevolentiae per paura delle leggi razziali, tanto che alla prima edizione dello scottante romanzo la scrittrice premetteva un’avvertenza in cui ribadiva la propria intenzione di descrivere il popolo a cui apparteneva così com’era con i suoi pregi e i suoi difetti, persuasa che “in letteratura non vi siano argomenti tabù”. Certo è che gli ebrei venuti dall’ Est, “fotografati” dall’impietosa penna némirovskyana, non ci sembrano portatori di sentimenti edificanti. Ma qui, quello che conta è la valenza del romanzo e la sapiente capacità della sua ipercritica autrice di proporci un plot avvincente, popolato da personaggi che ci lasciano in cuore un segno profondo ed inquietante. In sintonia con buona parte della sua scrittura, anche questa volta la Némirovsky è indirettamente autobiografica – anche se in forma più simbolica che letterale -, riproponendoci le atmosfere, gli stati d’animo, raccontandoci le peripezie di Ada, bambina in Ucraina e poi ragazza a Parigi. Nei suoi anni infantili la vediamo giocare col cuginetto Ben, mentre nelle strade, all’esterno, freme il rombo insanguinato del pogrom che porterà i due bambini, abitanti della parte bassa della città, quella destinata ai poveri, a rifugiarsi presso parenti spocchiosi della parte alta, quella dei privilegiati. Fatale dunque l’incontro con Harry il bambino ricco, ben vestito, paradigma dell’aristocratico benessere a lei negato. Questo privilegiato cugino dai riccioli bruni e dai grandi occhi splendenti, l’affascina in maniera irresistibile, tanto che – dopo il matrimonio con Ben – diverrà la sua amante, incapace di sottrarsi a un fato che la sovrasta. Impossibile riassumere una trama punteggiata da grovigli interiori, ritmata dal gioco contorto fra l’alternanza dei buoni e cattivi, dove cani sembrano essere i ricchi abitanti della città alta - quelli che godono dell’invidiato benessere - e lupi ci appaiono gli avidi cugini poveri, determinati all’inseguimento di coloro che ritengono essere più fortunati. Passione, desiderio e nostalgia del mondo ucraino, lasciatosi alle spalle, abita fino all’ultimo, queste pagine drammatiche, straziate da sentimenti contrastanti.<br />
Grazia Giordani<br />
<strong>Pubblicato sabato 12 aprile 2008 ne: L'Arena, Il giornale di VIcenza e Bresciaoggi</strong></div><br />
<div align="left" class="grazia"><b><i>Grazia Giordani</i></b></div>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-50384563447256688912011-12-11T14:55:00.000-08:002011-12-12T10:31:28.295-08:00Recensione pubblicata nel 2008 in Arena, giornale di Vicenza e Bresciaoggi<table align="center" border="0" cellpadding="10" cellspacing="0"><tbody>
<tr> <td><div class="Section1"><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://www.arteinsieme.net/public/immagini/Un%20folgorante%20capolavoro.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.arteinsieme.net/public/immagini/Un%20folgorante%20capolavoro.jpg" /></a></div><b><span style="color: blue; font-family: Verdana; font-size: 14pt;">Un folgorante capolavoro<o:p></o:p></span></b></div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><span class="GramE"><b><i><span style="font-family: Verdana;">di</span></i></b></span><b><i><span style="font-family: Verdana;"> Grazia Giordani<o:p></o:p></span></i></b></div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><b><span style="font-family: Verdana;"><o:p> </o:p></span></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><span style="font-family: Verdana;">Pochi invero sono i romanzi capaci di conservare intatta la capacità di emozionare il lettore<span class="GramE"> </span>ottant’anni dopo la prima pubblicazione. Questo è il destino di </span></b><b><i><span style="color: blue; font-family: Verdana; font-size: 14pt;">David <span class="SpellE">Golder</span></span></i></b><b><i><span style="font-family: Verdana;">, </span></i></b><b><span style="font-family: Verdana;">opera prima di <span class="SpellE"><span style="color: blue;">Irène</span></span><span style="color: blue;"> <span class="SpellE">Némirovsky</span> (Adelphi, traduzione di<span class="GramE"> </span>Margherita <span class="SpellE">Belardetti</span>, pp.180, euro 16)</span> che continua ad affascinare, proseguendo il destino di tutta la scrittura dell’autrice russa, rifugiata a Parigi in anni giovanili, morta ad Auschwitz, di cui già abbiamo ammirato lo splendido <i>Suite francese</i>, pubblicato e pluripremiato postumo.<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><span style="font-family: Verdana;">Siamo nella capitale francese nel 1929 quando Bernard <span class="SpellE">Grasset</span> ha appena finito di leggere il manoscritto di <i>David <span class="SpellE">Golder</span></i>, ricevuto per posta, senza il mittente. Folgorato dalla bellezza del romanzo, l’editore dovrà ricorrere ad un annuncio sul giornale per rintracciare la ventiseienne autrice, elegante, briosa, appartenente <span class="GramE">alla </span><i>haute</i> di una classe sociale che vive nel lusso e nella spensieratezza. E <span class="SpellE">Grasset</span> resterà stupito dalla giovinezza di una penna che sa scrivere col piglio consumato di uno scrittore di razza, capace di dare persino un taglio cinematografico alla sua pagina che ispirerà registi come Julien <span class="SpellE">Duvivier</span> negli anni Trenta e Gregory <span class="SpellE">Ratoff</span> vent’anni dopo, tanto è suggestiva la vicenda di <span class="SpellE">Golder</span>, l’ebreo di Odessa, emigrato giovanissimo che – dopo esser divenuto molto ricco in campo internazionale – ora si trova in cattive acque. “Era un uomo di più di sessant’anni, enorme, con le membra grasse e flaccide, gli occhi color dell’acqua, vivacissimi e opalescenti… il viso devastato, duro, come plasmato da una mano rozza e pesante”<span class="GramE"> .</span> Così <st1:personname productid="la Némirovsky" w:st="on">la <span class="SpellE">Némirovsky</span></st1:personname> ci descrive il suo protagonista, attingendo anche a reminiscenze personali, visto che la sua famiglia originaria di Kiev, apparteneva a banchieri plutocrati, rifugiatisi in Francia dopo la rivoluzione di ottobre. Subito <span class="GramE">ci</span> appare spietato questo <span class="SpellE">Golder</span>, una macchina da soldi senz’anima, pronto a indurre, senza scrupoli, al suicidio il socio Simon Marcus. Il destino di <span class="SpellE">Golder</span> è quello di rincorrere il danaro calpestando chiunque, attorniato dalla diffidenza e disistima di chi lo circonda. La moglie Gloria lo tradisce spudoratamente, mantenendo amanti a spese del marito (sembra che l’autrice si sia ispirata alla vita della madre, quella Fanny non precisamente amata), raggirato dalla figlia Joyce, pronta a tutto per estorcergli moneta. Moglie e figlia non avranno pietà del suo stato di salute della sua angina pectoris,<span class="GramE"> </span>interessate solo a soddisfare i loro vizi. Una sottolineatura speciale merita la crudeltà di Gloria quando istilla nella mente del marito il dubbio sulla sua paternità. Quella Joyce tanto viziata e in tutto accontentata, potrebbe dunque esser figlia dell’amante? E l’autrice dà segno di ben conoscere quel mondo fatuo e corrotto che sta descrivendo, poiché lei stessa ha vissuto i suoi anni giovanili in un’atmosfera da belli e dannati alla<span class="GramE"> </span><span class="SpellE">Fitgerald</span> Scott – tra la capitale francese e <span class="SpellE">Biarritz</span> -, prima di sposare il banchiere russo Michel Epstein. Il matrimonio porterà serena maturità alla brillante <span class="SpellE">Irène</span>, un’ebrea “dissidente”, inutilmente convertita al cattolicesimo nella speranza di salvare la pelle.<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><span style="font-family: Verdana;">Dunque, <i>David Golden</i> è un romanzo autobiografico, crudele e spregiudicato, nello stile prosciugato che l’autrice ha mantenuto anche in <i>Suite francese</i>, in cui <st1:personname productid="la Némirovsky" w:st="on">la <span class="SpellE">Némirovsky</span></st1:personname> guarda al microscopio il suo mondo di appartenenza, fatto di prospettive materialistiche e fatue, il mondo degli affari sulla pelle del prossimo, spesso degli ebrei nuovi ricchi il cui unico obiettivo sembra essere quello di diventare ancora più ricchi. I sentimenti sembrano non<span class="GramE"> </span>esistere, relegati in secondo piano. Umanità e solidarietà sono utopie. La sopraffazione la fa da padrona, umiliando e schiacciando<span class="GramE"> </span>chiunque, anche se nel finale del romanzo un soprassalto di sentimento si fa spazio fra tanto cinismo, visto che l’incallito ebreo, devastato dalla malattia, si avventura nell’ ultima impresa finanziaria per salvare la giovane Joyce, pur nel dubbio che si tratti veramente di sua figlia. Un estremo bagliore di luce, nel buio di tanto cinismo.<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-family: Verdana;"><o:p> </o:p></span></b></div></div></td></tr>
</tbody></table><img src="http://www.arteinsieme.net/public/immagini/Un%20folgorante%20capolavoro.jpg" />graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-57683610493077564752011-12-10T09:58:00.000-08:002011-12-10T09:58:37.300-08:00Conversazioni su Irène Némirovsky<div align="center" class="grazia"><b>Conversazioni su Irène Némirovsky</b></div><div align="left" class="grazia">Irène Némirovsky<br />
(Kiev 1903-Auschwitz 1942)<br />
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Per rendere veramente viva – agli occhi di chi ci ascolta – la vita di un’autrice che ci ha lasciati, non ancora quarantenne, negli agitati anni Quaranta, credo sia indispensabile indagare ed approfondire la radice storica entro cui è inserita, come una perla nel suo castone.<br />
Ad aiutarci, in questo nostro intento, ritengo basilare il saggio di Olivier Philipponat e Patrick Lienhardt.<br />
Questo duetto di autori ha condotto un documentato e puntiglioso viaggio dentro il percorso vitale della grande scrittrice, perlustrando le pieghe più nascoste di un animo tanto contraddittorio, al punto che ci illudiamo di vedere Irène fisicamente, non solo per il ricco corredo fotografico, ma anche per la descrizione fisica (« giovane, sottile, piccola, bruna, tipo spiccatamente ebraico, non bella. Gli occhi neri, velati dalle palpebre pesanti, esprimono solo una sorta di dolcezza maliziosa. I capelli, tagliati corti, incollati alla testa un po’ allungata, ne accentuano la piccolezza. Le labbra carnose si aprono in un sorriso franco. I modi sono di un ‘eleganza disinvolta, frutto di un’educazione impeccabile».<br />
Nasce a Kiev nel 1903 – Irène – e a quell’epoca, la capitale dell’Ucraina, un tempo – nell’882, quando iniziò la dinastia degli zar - prima capitale della Russia, era un fulgente giardino di una pienezza vegetale incantevole che profumava l’aria in maniera inebriante.<br />
La chiamarono Irma, per via della sinagoga e Irina come la nipote dello zar. In casa la chiamavano Iroçka. Nasce asmatica e quindi non può godere dei profumi della sua terra. <br />
I genitori di Irène erano diametralmente opposti fra loro.<br />
Anna, la madre, era raffinata ed autoritaria. Alta, ben fatta, con un portamento regale, ma lasciva, bugiarda e molto venale. Leggendo le opere della N. vedremo come sarà prototipo di figure di donne disdicevoli, non certo eroine positive.<br />
Siamo in epoca storica in cui gli zar tendevano a ghettizzare gli ebrei.<br />
Caterina II tendeva a confinarli, emarginandoli. Alessandro II, più aperto e liberale, aveva preso a concedere privilegi almeno agli ebrei di classe più elevata, ma nel 1881 fu assassinato, ricacciando il mondo giudeo-russo nella pena dell’esclusione.<br />
Conscia di questa apartheid, Anna stava ben attenta a scegliersi gli amanti fra i gentili. Proibiva, inoltre, che in casa sua si parlasse yddish o si cucinassero piatti tipici della religione ebraica.<br />
Aveva ricevuto dai genitori una educazione perfetta. Premiata con medaglia d’oro al ginnasio di Kiev, suonava il pianoforte. Adorava il lusso in tutte le sue forme. Frivola, golosa, tendeva alla pinguedine.<br />
Leonid Némirovsky era di estrazione molto più modesta della moglie. Abbandonato dal padre, dovette cominciare presto a provvedere ai bisogni della famiglia. Ragazzo scaltro e poi uomo senza scrupoli, aveva fatto tutti i mestieri, vagabondando per Mosca e attraversando la Russia fino al Pacifico, tenendosi su a forza di alcol.<br />
Agli occhi di Irina il padre sarà sempre la personificazione dell’audacia per lei tipica del genio ebraico, capace di piegare il destino alla propria orgogliosa volontà.<br />
Che cosa aveva a che fare questo Leonid di così bassa estrazione con la distinta Anna Margulis, allevata dai genitori nella venerazione della cultura francese?<br />
L’audacia di Leonid aveva incuriosito la viziata ragazza blasée.<br />
Dandosi al commercio e, soprattutto giocando in borsa, l’ebreo dalla pelle olivastra, era diventato ricchissimo.<br />
Inoltre, l’Ucraina era diventata un vero Eldorado industriale, poiché in dieci anni la produzione di petrolio e di acciaio aveva raggiunto un’espansione spettacolare. L’ampliamento della rete ferroviaria e la messa in funzione della transiberiana, facevano dell’estremo oriente una novella America.<br />
La speculazione favorirà il sorgere di una classe borghese prospera che si appoggiava al nascente Partito costituzionaldemocratico (KD), dei “cadetti”fedele alle nuove istituzioni, ma incline a riforme liberali di stampo occidentale. Tra le file dei cadetti contiamo anche Leon Némirovsky, preoccupato di guadagnare, prosperare, innalzando un baluardo dorato fra sé e la sua infanzia.<br />
Preoccupato di offrire agi di ogni tipo ed adeguata istruzione alla figlia, non faceva troppo caso alle scappatelle della moglie.<br />
C’era solo una cosa che l’affascinava veramente: l’oro. La sete terribile dell’oro lo consumava.<br />
Il gergo di casa erano dunque cifre borsistiche e questo linguaggio ritmò l’infanzia di Irène, mentre la generosità di Leonid si spinse a mantenere agli studi nipoti poveri e persino ad alloggiare amanti della volubile Anna-Fanny.<br />
«Gli uomini sono lupi – usava dire a Iroçka -. Quando sei forte, hanno paura di te e ti blandiscono, ma non appena cadi, ti divorano».<br />
Dopo l’assassinio dello zar Alessandro II – siamo nel 1882 - i pogrom e le persecuzioni e carneficine a danno degli ebrei s’infittirono.<br />
Anna è ossessionata dallo spettro del ghetto e nel contempo dal dramma verticale che si è creato tra gli ebrei ricchi, gli eletti, e i miserabili, i paria, ritenuti gli esclusi.<br />
E i Némirovsky lottano per essere tra gli eletti.<br />
Il 1912 fu un anno particolarmente fortunato per Leonid divenuto presidente del consiglio della banca commerciale di Veronel e amministratore della banca unione di Mosca. Incominciò a produrre oro come una miniera.<br />
Irina cresce nell’agio sfrenato del padre, nell’avarizia egoistica della madre, nella cultura, nel rimpianto snobistico di una vagheggiata Francia.<br />
<br />
Il 1917 è un anno fatale.<br />
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L’intento dei russi, scontenti della dominazione zarista, è quello di “distruggere il vecchio mondo”.<br />
Chi ha avuto la grazia di visitare la San Pietroburgo dei giorni nostri, la mitica città fondata da Pietro il Grande nel 1703, lo zar che fu un groviglio di contraddizioni e paradossi, resterà stupito dalla descrizione che ci lascia la Némirovsky negli anni della rivoluzione.<br />
Ma andiamo per gradi, tornando alla mitica città di allora, con quel monarca che sapeva essere allegro e gentile, terribile nei suoi accessi di collera, imprevedibile e deliberatamente spietato, come in occasione delle torture che egli stesso praticava agli avversari politici in camere segrete. Da vero autocrate russo si considerava il sovrano assoluto di sudditi privi di qualsiasi diritto. Infallibile al punto che ogni suo desiderio andava soddisfatto all’istante e a qualunque prezzo. Dicono che buona parte delle sue nevrosi e delle sue follie abbiano tratto origine dall’aver visto, negli anni infantili moscoviti, molti suoi parenti infilzati dalle micidiali picche dei ribelli..<br />
Eppure, Pietro amava la Russia e il suo popolo ricco di talenti, la sua lingua colorita, i suoi riti, la sua cucina. Ma della Russia odiava il fango, la pigrizia, le ruberie e odiava la vecchia capitale, Mosca, dove per un soffio era scampato alla morte e che identificava come scenario di continue congiure ordite contro di lui dai soldati ribelli.<br />
Provocatore, l’amore per i grandi gesti segnò tutte le sue azioni.<br />
Con la fondazione di San Pietroburgo, Pietro voleva stupire non solo la Russia, ma tutto il mondo civile e ci riuscì.<br />
Si ispirò all’Olanda, immaginando che la sua città si sarebbe librata come “un’aquila”, sarebbe stata una fortezza, un porto, un immenso cantiere navale, un modello per tutta la Russia, oltre che una vetrina per l’Occidente.<br />
L’architetto francese Leblond, autore del piano generale della città, fu picchiato dallo zar e di lì a poco morì.<br />
Avevano paura dello zar architetti ed artisti stranieri: italiani, tedeschi, olandesi che partecipavano alla fondazione della “Nuova Roma”.<br />
Tasse e balzelli ingenti si rovesciarono sulle finanze dei cittadini. Trasferì a Pietroburgo tutti i muratori del paese, col divieto di costruire case di pietra, eccetto che nella sua costruendo città. (p.30 Il mito di San Pietroburgo).<br />
<br />
Nell’ottobre- novembre del 1917 – a causa dell’uccisione dello zar Nicola II e di tutta la sua famiglia servi e cani compresi – i Némirovsky subirono persecuzioni, dovendosi rifugiare temporaneamente a Mosca.<br />
Trovo particolarmente interessante il raffronto tra la San Pietroburgo di Pietro il Grande, in buona parte ritornata oggi agli antichi splendori e la magica città del ’17, vista dagli occhi di Irina che così ce la descrive: .<br />
«Tutte le strade pubbliche erano innaffiate di vino e ho visto con i miei occhi una via lavata con lo champagne».<br />
Si raccontano casi di annegamento e asfissia nelle cantine. Anche gli scalini d’ingresso del palazzo Smolnij, sede del governo, erano coperti di uno strato di eccellente bordeaux ghiacciato Un tanfo di vinaccia e di vomito aleggiava sulla città. Ma soprattutto le bevute favorivano le uccisioni a sangue freddo in un espandersi di crudeltà infinite»<br />
.<br />
Nel 1918 i Némirovsky furono costretti a lasciare San Pietroburgo, rifugiandosi in Finlandia, come altri quarantamila russi entro il 1922.<br />
Il peregrinare di Irina prevede altre tappe: Stoccolma e poi l’adorata Parigi.<br />
Qui Irina che si chiamerà definitivamente Irène, conduce una vita dorata (balli, flirt, trasgressioni) e Anna-Fanny dà libero sfogo al suo animo trasgressivo, ingioiellata più che mai, al volante di un’auto lussuosa, dono di Léon il marito banchiere sempre più assorbito dalla corsa agli affari.<br />
È il 1921 l’anno in cui Irène inizia a buttar giù di notte i suoi primi testi di prosa (già le conoscevamo – nel periodo finlandese – qualche ingenua poesia).<br />
In Nonoche au vert dscrive già la fama equivoca dei ricchi di Biarritz, descrizione che diventerà al vetriolo in David Golder. A Questo suo primo libro, dove la protagonista è una piccola prostituta, farà seguito Nonoche au Louvre, ma questi sono ancora primi tentativi di scrittura, forse un po’ goffi, pur dotati di quell’humour di cui la Nostra fu capace di esprimere per tutta la vita.<br />
Nonoche chez l’extralucide uscì sul quindicinnale “Fantasio”, una rivista ardita, quasi per soli uomini.<br />
Ventenne, ottiene dal padre il dono di un appartamento parigino ammobiliato. I suoi flirt si fanno frenetici, insistenti ed è oggetto di uno stupro.<br />
Venticinquenne, Irène sfoga nell’Ennemie tutto il suo odio verso la madre, insensibile, vanitosa, gaudente e malvagia.<br />
Gli anni che corrono tra il 1925 e il 1929 sono di basilare importanza per la formazione di Irène.<br />
Michel Epstein, un brunetto di bassa statura, ma appartenente a una delle più antiche famiglie giudeo-russe, inizia a corteggiarla.<br />
Miša aveva il mento aguzzo, lo sguardo gioioso e il sorriso furbo di suo padre, docente universitario a Mosca e San Pietroburgo, nonché amministratore delegato di un potente istituto bancario, una delle prime cinque in Russia.<br />
La rivoluzione del 1917 aveva portato anche gli Epstein a rifugiarsi in Francia.<br />
Michel non era forse, all’epoca, un buon partito, poiché Irène, coi sui romanzi guadagnava già il doppio del futuro marito, ma era un uomo vivace, piacevole che sapeva apprezzare la vita.<br />
Irène e Michel provenivano, comunque, dallo stesso ambiente, quello dei finanzieri ebrei sospinti sino a Parigi dalla rivoluzione bolscevica. La loro unione venne celebrata con matrimonio civile a Parigi il 31 luglio del 1926, in regime di separazione dei beni. Irène portava alla sinistra un diamante di fidanzamento e alla destra, secondo l’uso russo, mise l’anello nuziale. Il giorno successivo, in sinagoga venne celebrato il matrimonio religioso.<br />
I giovani sposi presero dimora in una bella abitazione della Rive Gauche parigina .Avevano al loro servizio due domestiche, una cameriera, una cuoca basca. Nel salotto di questa casa, deliziosamente arredata, Irène, adagiata sul morbido sofà, prende appunti per il suo grande romanzo, in attesa del ritorno di Michel dal lavoro. Una vita serena, agiata, piena di soddisfazioni.<br />
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Al cadere degli anni Trenta, la Némirovsky pubblica il primo dei suoi romanzi più importanti il David Golder, lo sbalorditivo romanzo che le darà la fama più grande in vita. Qui un banchiere rude e venale, odiato, corteggiato o deriso dai suoi, ritroverà nell’ora della morte, le promesse della sua infanzia miserabile e la fede dei suoi padri rimasta viva e palpitante sotto l’involucro dorato. L’autrice lo ha scritto e riscritto, lavorandoci per oltre quattro anni. Concepito a Biarritz, di fronte allo spettacolo di tutti quei ricconi, fannulloni, squilibrati e viziosi, di tutto quel mondo eterogeneo di finanzieri, di banchieri equivoci, di donne alla ricerca del piacere e di sensazioni nuove, di gigolò, questo romanzo è pieno di allegorie anche sull’anima ebraica, come hanno rilevato i più acuti critici dell’epoca. David Golden esprime tutta l’avidità e insieme tutta la sazietà dell’ebreo quando si abbandona per intero al mondo: vuole tutto pur sapen<br />
do che tutto è niente. David Golder, chiaramente ispirato al padre Leonid-Léon è il fabbricante d’oro, il Sansone ribelle che spezza le catene dorate legate ai suoi polsi da una moglie avida e un a figlia volubile, entrambe schiave del vizio. Ultimata la scrittura, il primo lettore del romanzo fu Michel. Venne quindi inviato ad André Foucault, redattore capo delle “Oeuvres Libres” che le consigliò di snellirlo, accorciandolo di una cinquantina di pagine.<br />
Non intendendo ragione, spedì il manoscritto a Bernard Grasset.<br />
Nel frattempo, nacque Denise, la sua amatissima primogenita, a cui diede tutto l’affetto che a lei dalla madre era stato negato.<br />
Grasset, sbalordito dalla bellezza forte del romanzo, fece un annuncio sul giornale per trovare l’autore del manoscritto, firmato semplicemente Epstein.<br />
L’editore – Bernard Grasset - resterà meravigliato, conoscendo l’autrice qualche mese dopo il parto. Non si sarebbe certamente aspettato una così esile e raffinata signora, capace di una scrittura cruda e di un gergo borsistico. Se n’era fatta un’immagine ben diversa.<br />
Grasset considera questo romanzo tutta una filosofia dell’amore, dell’ambizione, del denaro. Per la sua potenza e per lo stesso argomento ricorda Papà Goriot e ciò nonostante è originale. Raffronti vengono fatti dai critici persino col capolavoro di Tolstoj La morte di Ivan Ili’c vista la similitudine con le agonie dei due protagonisti. In ambedue i romanzi ci sono mogli che non si possono rassegnare nel veder sparire gli emolumenti economici con la morte dei mariti.<br />
Il romanzo, osannato dalla critica, è in libreria poco prima di Natale, al prezzo di 15 franchi.<br />
Due grandi registi Nozière per il teatro e Duvivier per una versione cinematografica, si occuperanno di questo inquietante, rivoluzionario romanzo. Nascono contestazioni e liti tra i due registi che mortificheranno molto l’Autrice del romanzo.<br />
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Irène ama intervallare le sue scritture, riempiendo i suoi quaderni di appunti di note e rimandi.<br />
Quindi, fra due capitoli del David Golden, scriverà Le Bal, ancora un romanzo di condanna per il comportamento smodato e disaffettivo della madre.<br />
Abbiamo ancora una famiglia di ebrei, arricchitisi in Borsa, avidi di prestigio mondano-sociale dentro cui s’inquadra una nuova trasposizione del conflitto adolescenziale di Irène, per cui Antoinette.è perversa in quanto figlia di Rosine.<br />
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Nel maggio del 1931 esce Les mouches d’automne in cui la metafora si riferisce a quei russi di Neully e Passy che, tormentati dal rimpianto della loro terra, languono in modesti alloggi ammobiliati come fanno le mosche quando, in autunno, rimaste intrappolate nelle case, ronzano a lungo prima di cadere sfinite.<br />
Ingannata dalla nebbia che crede sia la prima neve, Tat’ jana Ivanovna, la vecchia dolce njanja scende a passeggiare per strada, ma è travolta da un acquazzone che la fa sprofondare nelle acque gelide della Senna.<br />
Ora è la volta nel 1932 di L’affaire Courilof, forse scritto anche per placare il dolore della morte del padre di Irène. <br />
Si presenta come la confessione del protagonista Léon che – spacciatosi per medico – ha l’incarico di infiltrarsi nella cerchia del sanguinario Kurilov, detto il Pescecane, ministro della Pubblica istruzione, per ucciderlo.<br />
Costretti a convivere, l’assassino e la sua vittima, finiscono per lo stimarsi a vicenda. Siamo di fronte, ancora una volta, a un declino fisico, a un disgregamento del potere, a un crepuscolo delle certezze.<br />
Nel 1934 esce Pion sur l’échiquier (Pedina sullo scacchiere) che subirà stroncature dalla critica.<br />
Uscirà in seguito Vin de solitude, ancora una testimonianza del pessimismo ebraico dell’Autrice..<br />
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Tra il 1935 e il 1942, in buona sostanza, la Némirovsky ha scritto nove romanzi, una biografia e ben trentotto racconti.<br />
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Michel guadagna 41.800 franchi e Irène, con la sua scrittura, percepisce il triplo del marito, mentre l’ingorda madre tiene tutto per sé dopo la morte del plutocrate marito.. Ma gli Epstein non abbassano il tenore di vita, non rinunciano alla servitù, ai medici più alla moda. Anzi, cambiano casa, trasferendosi in un’abitazione più lussuosa.<br />
Irène e il marito non riescono ad ottenere la cittadinanza francese, nonostante le amicizie e gli appoggi prestigiosi a cui ricorrono. E’ la piccola Denise la prima della famiglia a guadagnare questo privilegio.<br />
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Jezabel è la storia di un’orchessa che – metaforicamente – divora la propria figlia per conservare intatto sino alla fine il suo “potere di donna”. Esce prima a puntate e poi in forma di romanzo.<br />
Jezabel è un’allegoria dell’arroganza in cui più che un affresco a vasto raggio, incontriamo il ritratto femminile di una “femme fatale”, una donna che fin dagli anni della sua prima giovinezza ha posto l’accento sul potere della bellezza estetica e sulla voluttà che ne deriva. La bellezza raggiunge il parossismo di un irrinunciabile vizio, quasi una fatale condanna.<br />
Gladys Eysenach non ha occhi che per se stessa e si cura soprattutto con belletti, massaggi e artifici, per la conservazione di un aspetto esteriore che non denunci la sua reale età anagrafica. Gli uomini saranno dunque intercambiabili pedine nelle sue mani, anche quelli che parrebbero aver avuto più consistente peso nella sua volubile esistenza – vedasi Dick, il secondo marito – che afferma sopra tutti di rimpiangere.<br />
Accusata di aver ucciso il suo giovane amante nella spensierata Parigi anteguerra dove i ricchi sembrano vivere in un mondo dorato sopra le righe (lo stesso mondo della Némirovsky, prima della sua terribile fine), dove tutto sembra scintillare di luci troppo forti e dove le coscienze appaiono essere fatue e prive di sostanziose consapevolezze (quasi si vivesse dentro un dipinto di Mario Cavaglieri!), Gladys – in pieno contrasto con le aspettative degli astanti, non chiederà di essere assolta.<br />
Ancora molto bella, tanto che sembra il tempo l’abbia sfiorata appena, mentre il clima d’attesa nell’aula di tribunale si fa sempre più gonfio di gossip – prestando l’estro alle invidiose presenti di fare un ripasso del folto carnet dei suoi numerosissimi amanti – sembra nascondere una verità che sfugge al pubblico goloso di scandali, sovraeccitato e impaziente di impadronirsi dei suoi pruriginosi segreti.<br />
Misteri che verranno svelati solo al lettore attento che sa leggere fino in fondo il peccaminoso dramma di una donna vissuta nella costante menzogna al fine di nascondere la sua reale età anagrafica. Menzogna che la spingerà a falsificare documenti, ringiovanire la figlia al fine di ringiovanire se stessa e soprattutto negare la possibilità alla figlia di amare liberamente e di essere madre in maniera normale, senza sotterfugi.<br />
Gladys, disperatamente ostinata nel suo artificioso giovanilismo, non potrebbe mai accettare di essere nonna. Questo è il suo maniacale dramma. Questa è la sua fissazione che la spingerà a sacrificare la figlia, che la indurrà a calpestare quanti la attorniano, determinata – sessantenne – a mantenere il rapporto con un uomo che per età potrebbe esserle figlio e spingendola poi all’omicidio di quello che parrebbe essere un suo giovanissimo nuovo amante.<br />
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Deux è il nuovo romanzo di Irène in cui l’amore può trasformarsi in amicizia, restando spesso “ricordo dell’amore”.<br />
In realtà, le bozze e gli abbozzi dei suoi romanzi sono tutte tracciate, e in qualche modo concatenate, in quello che lei chiama scherzosamente Il Mostro, ovvero un insieme di appunti con continui rimandi l’uno all’altro.<br />
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In Espoirs si parla della vita di una piccola modista russa che vive a Parigi soltanto dell’elemosina delle clienti.<br />
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Nel 1938 incombono le leggi razziali e i Némirovsky sono pieni di debiti..<br />
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Scrive Enfants de la nuit che prenderà il titolo definitivo di Les Chiens e les loups resuscitando il ghetto di Kiev. Ci sono romanzi che sollevano un polverone appena pubblicati e poi cadono nel dimenticatoio, altri che mantengono un certo “magnetismo”, anche se riproposti molti anni dopo la loro prima uscita. Questo ci parrebbe essere il caso di I cani e i lupi di Irène Némirovsky (Titolo originale: “Les chiens et les Loups”, pp.234, euro 18,50), l’ultimo romanzo pubblicato in vita dall’autrice, prima della deportazione ad Auschwitz che Adelphi, intento a ripubblicare l’opera omnia di questa donna dalla penna geniale – di cui soprattutto ricordiamo il capolavoro Suite francese - ha portato in Italia per noi nella bella traduzione di Marina di Leo. Un polverone all’epoca, dicevamo, addirittura con accuse di antisemitismo e persino di captatio benevolentiae per paura delle leggi razziali, tanto che alla prima edizione dello scottante romanzo la scrittrice premetteva un’avvertenza in cui ribadiva la propria intenzione di descrivere il popolo a cui apparteneva così com’era con i suoi pregi e i suoi difetti, persuasa che “in letteratura non vi siano argomenti tabù”. Certo è che gli ebrei venuti dall’ Est, “fotografati” dall’impietosa penna némirovskyana, non ci sembrano portatori di sentimenti edificanti. Ma qui, quello che conta è la valenza del romanzo e la sapiente capacità della sua ipercritica autrice di proporci un plot avvincente, popolato da personaggi che ci lasciano in cuore un segno profondo ed inquietante. In sintonia con buona parte della sua scrittura, anche questa volta la Némirovsky è indirettamente autobiografica – anche se in forma più simbolica che letterale -, riproponendoci le atmosfere, gli stati d’animo, raccontandoci le peripezie di Ada, bambina in Ucraina e poi ragazza a Parigi. Nei suoi anni infantili la vediamo giocare col cuginetto Ben, mentre nelle strade, all’esterno, freme il rombo insanguinato del pogrom che porterà i due bambini, abitanti della parte bassa della città, quella destinata ai poveri, a rifugiarsi presso parenti spocchiosi della parte alta, quella dei privilegiati. Fatale dunque l’incontro con Harry il bambino ricco, ben vestito, paradigma dell’aristocratico benessere a lei negato. Questo privilegiato cugino dai riccioli bruni e dai grandi occhi splendenti, l’affascina in maniera irresistibile, tanto che – dopo il matrimonio con Ben – diverrà la sua amante, incapace di sottrarsi a un fato che la sovrasta. Impossibile riassumere una trama punteggiata da grovigli interiori, ritmata dal gioco contorto fra l’alternanza dei buoni e cattivi, dove cani sembrano essere i ricchi abitanti della città alta - quelli che godono dell’invidiato benessere - e lupi ci appaiono gli avidi cugini poveri, determinati all’inseguimento di coloro che ritengono essere più fortunati. Passione, desiderio e nostalgia del mondo ucraino, lasciatosi alle spalle, abita fino all’ultimo, queste pagine drammatiche, straziate da sentimenti contrastanti.<br />
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Per l’autrice i guai razziali si fanno sempre più pressanti.<br />
Indesiderata in Russia, priva di cittadinanza francese, non è in odore di santità nemmeno in Italia dove gli editori chiedono ragguagli sulla sua identità israelita.<br />
Autorevoli raccomandazioni cercano dall’alto di farle ottenere la cittadinanza francese assieme a Michel.Ma l’impresa si è fatta impossibile.<br />
Allora, Irène tenta la via della religione, della conversione religiosa.<br />
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Recatasi in montagna con le figlie (nel frattempo era nata anche Elizabeth), ha conosciuto un giovane parroco a cui – appena trentottenne – sono stati assegnati importanti incarichi ecclesiastici.<br />
Padre Roger Bréchard aveva sulle prime pensato di andare a fare il missionario in Africa. Quindi, si è dato allo scoutismo.<br />
Un parroco di campagna semplice ed intelligente.<br />
Si è propensi a credere che Irène stia recitando la commedia del cristianesimo per sottrarsi alla maledizione che perseguita gli ebrei, essendo ormai passibile di espulsione.<br />
Il suo battesimo sarà dunque un’abiura per salvare la pelle o una sincera conversione?<br />
La Nèmirovsky sa bene che per i fanatici razzisti un ebreo convertito resta comunque ebreo. Quindi, perché?<br />
Il 2 febbraio 1939 nella cappella dell’abbazia Sainte-Marie, situata nel ventiseiesimo arrondissement, Irène, Michel, Denise ed Elisabeth Epstein verranno regolarmente battezzati dalle mani di mons.Ghika, padrino padre Bréchard.<br />
Si verifica un intenso scambio epistolare con mons. Ghika, sempre pieno di scuse da parte di Irène che adduce indisposizioni o incapacità di rendere visite promesse o di recarsi a messa nei giorni comandati.<br />
La stesura di Les Chiens et les loups avviene in perfetta concomitanza con la conversione.<br />
Michel si ammala gravemente e Irène si rivolge alle preghiere di mons.Ghilka.<br />
Le pratiche per la naturalizzazione francese continuano ad essere negate e rinviate. Si adatta a lavoretti alla radio, piccole trasmissioni su scrittrici straniere per mettere insieme qualche soldo.<br />
Fortunatamente, la vendita di Deux, il romanzo d’amore, le rende bene.<br />
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Scoppia la guerra nel settembre 1939<br />
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È dal 1938 che Irène torna periodicamente a Issy-l’Êvêque per dimenticare fatiche e guai nella pace di quel paesino della Borgogna, rannicchiato tra valli e foreste. Qui si concede lunghe passeggiate e scrittura en plein air.<br />
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In questi tempi si riaccende in Irène un forte interesse per la Russia, per cui ricorda la guerra civile del 1918.<br />
La lontananza da Denise ed Elizabeth – affidate ad Issy ad un’amica di fiducia - e le lunghe giornate solitarie, dopo il rientro parigino, rinfocolano le sue nostalgie di passato.<br />
Di questi tempi scrive La femme de don Juan .<br />
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Ed ecco il nostro racconto, La moglie di don Giovanni. Nessuna ambientazione sei-settecentesca: siamo nei primi decenni del Novecento. Clémnce racconta di quando era giovane e lavorava come camerista presso la madre della piccola Monique, quella signora che tutti compiangevano per i ripetuti tradimenti del marito e tutte invidiavano per la fede nuziale che la legava allo stesso, entusiasmante marito. Lei si comportava come una moglie irreprensibile e come una madre attenta, anche se non particolarmente disposta ad elargire ai figli quel calore che le negava il consorte. La Némirovsky l’ha tratteggiata con poche pennellate incisive: una donna immobilizzata tra la consapevolezza del suo poco fascino e l’orgoglio cui la obbligava la sua casta. Silenziosa, quasi invisibile, sempre all’altezza del proprio compito.<br />
Ma qualcosa la scosse dal torpore: una relazione di Henry più seria del solito, il pericolo di abbandono del tetto coniugale. Tutti sapevano che l’uomo era quasi disposto a lasciare moglie, figli e patrimonio per rischiare una nuova vita con una giovane baronessa. Tutti erano talmente accecati dal suo fascino prorompente da non accorgersi mai di quello che covava la moglie. Se la psicologia di questa donna si rivela pian piano nella sua complessità e nei suoi abissi, quella del marito – pur con la sua allegria, la sua generosità, la sua bellezza – rimane piatta: un bel soprammobile. <br />
La Némirovsky, attraverso al voce e i ricordi di Clemènce, gioca a ribaltare le parti, allo smascheramento della rispettabilità borghese e dei suoi valori, a destare interesse proprio lì dove la società vede grigiore: in questa donna remissiva e brutta. Il destino è in agguato: una donna di tal fatta era disposta ad accettare di tutto, tranne che si ridesse di lei. Ed è proprio quello che farà il marito durante una gita in macchina, con esiti fatali che non sveleremo.<br />
Chissà se la signorina Monique si ricorda di quel periodo e dei suoi drammatici fatti? Probabilmente sì, ma di sicuro non conosce i suoi retroscena, quello che successe veramente. Clémnce non ha finito di raccontare: i segreti sono ancora molti in questo melodramma dello smascheramento, e vale veramente la pena di leggere il racconto per scoprirli.<br />
La lunga lettera è l’eredità di Clémence, il lascito finale di una donna che sta morendo di cancro a un’altra donna che ha da poco scoperto la maternità. L’unica eredità possibile, potremmo dire: quella della verità. Una verità svelata attraverso il filo del femminino, quel filo che consente di condensare qualsiasi distanza spaziale e temporale per mettere tutto a nudo. Senza ipocrisie, senza teorie.<br />
Un piccolo gioiello. La moglie di don Giovanni sfrutta una storia classica e si articola sul noto triangolo lui-lei-l’altra per scardinarli dall’interno e cambiarli completamente di segno. Tratteggia tutta una classe sociale e i suoi protagonisti con una straordinaria capacità di sintesi. S’impadronisce delle letterature francese e russa per costruire un racconto che gioca mirabilmente con i piani temporali e con le generazioni. E, infine, emoziona in poche pagine. <br />
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I tempi si son fatti sempre più difficili per i coniugi Némirovsky.<br />
Michel è obbligato a far da interprete ai tedeschi, vista la sua perfetta conoscenza della lingua.<br />
Irène ha l’ingenuità di rivolgersi personalmente al Maresciallo Pétain, ritenendosi protetta dalla sua fama di scrittrice.<br />
“Inutile dire che non mi sono mai occupata di politica, avendo scritto solo opere puramente letterarie. Inoltre, sia sui giornali stranieri che alla radio mi sono impegnata ala massimo per far conoscere e amare la Francia.<br />
Non posso credere, signor Maresciallo, che non si faccia alcuna distinzione tra gli indesiderabili e gli stranieri onorevoli che, se hanno ricevuto dalla Francia un’ospitalità regale, sono consapevoli di aver fatto ogni sforzo per meritarla.<br />
Auspico dunque che la vostra alta benevolenza includa me e la mia famiglia in questa seconda categoria, che ci venga concesso di risiedere liberamente in Francia e che io possa continuare a esercitare la mia professione di romanziera”.<br />
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Naturalmente, non ricevette risposta.<br />
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Per tutto il mese di agosto lavora alla stesura di Jeunes et vieux.<br />
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Comincia a concepire la stesura del suo capolavoro, una specie di sua Guerra e pace, scrivendone la prima parrte Tempête. Cui farà seguito Dolce. Altre tre parti avrebbero dovuto completare la sinfonia<br />
Questo è l’atto di nascita di Suite francese il romanzo fiume ancora anonimo, cui avrebbe dovuto far seguito una terza parte Captivité.<br />
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Tutta la famiglia, esclusa la figlia minore, dovrà indossare la stella gialla..<br />
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Irène cerca in tutti i modi che le venga concesso un rientro a Parigi da Issy.<br />
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Il 13 luglio del 1942 secondo la testimonianza della figlia Denise che abbiamo sentita parlare alla radio, nella trasmissione Fahrenait di qualche anno fa, colpi inesorabili alla porta di casa preannunciano la fine.<br />
“Non capivo niente, sentivo un calpestio di stivali e i miei genitori che tornavano nella loro stanza, il tutto in un silenzio pesante” – ricorda Denise – a cui viene permesso di abbracciare la madre.<br />
Irène ha appena il tempo di preparare un’affrettata valigia. E dice alle figlie che parte per un viaggio di qualche giorno.<br />
Michel è distrutto.<br />
Alla russa, osservano il silenzio.<br />
Niente lacrime.<br />
Irène viene portata in un a gendarmeria a 10 Km da Issy.<br />
Ha dimenticato occhiali da lettura e stilografica.<br />
Non è più una madre, una moglie, una scrittrice russo-francese.<br />
È soltanto un’ebrea.<br />
Verrà internata nel campo di concentramento di Pithiviers nel Loiret.<br />
E poi l’attende Auschwitz, ovvero l’inferno.<br />
Michel smuove mari e monti appellandosi a politici e prelati, raggiungendo una disperazione al limite della follia.<br />
Molti tentano di aiutarlo, ma invano.<br />
Il 9 ottobre del 1942 si ripete il copione identico.<br />
Padre e figlie vengono condotti alla prefettura di Autun.<br />
Qui c’è un ufficiale tedesco che – impietosito – dice alle due bambine: “vi do 48 ore per sparire”.<br />
La valigia col manoscritto della prima parte di Suite francese viene affidata alle bambine che l’apriranno solo sessant’anni dopo.<br />
Michel subisce vari trasferimenti nei carceri francesi.<br />
Gli vengono tolti gli 8.500 franchi che ormai non servirebbero più a nulla.<br />
Julie Dumot trattiene ancora qualche giorno le bimbe ad Issy.<br />
I gendarmi tedeschi si presentano a scuola a prelevare Denise che la maestra si appresta a far nascondere dietro il letto di sua madre, vedova della Grande Guerra, che nessuno avrebbe avuto il coraggio di disturbare.<br />
Julie scappa a Bordeaux con le bambine e riceve dall’amico Sabatier il compenso in danaro dell’ultimo racconto pubblicato da Irène.<br />
A 10 Km da lì partono 36 convogli verso la morte<br />
Il 28 agosto 1944 Bordeaux viene liberata.<br />
Le bambine con la fida Julie si presentano regolarmente alle stazioni parigine, sperando nel ritorno dei genitori che si ostinano a non credere morti.<br />
Solo la nonna, l’egoista Fanny, risponderà ad una richiesta di aiuto di Julie: “Io non ho nipoti!”<br />
Sabatier farà pubblicare tutto il possibile dell’amica, compreso La chaleur du sang.<br />
(Ci sono temi che mulinano nella mente degli scrittori come un insistito refrain, quasi un tormentone cui non possono sottrarsi. <br />
E questo è successo anche a Irène Némirovsky - nata a Kiev nel 1903 e morta ad Auschwitz nel 1942 - l'autrice nota al grande pubblico per il best seller «Suite francese» (un milione e 500 mila copie vendute in tutto il mondo). <br />
Come buona parte degli scrittori di ceppo ebraico, basterebbe pensare ad Arthur Schnitzler o a Stefan Zweig, solo per fare due nomi, anche Irène è attratta dai meandri oscuri della psiche, dove abitano i grovigli morbosi del cuore. <br />
Quindi, il nucleo forte de «Il calore del sangue» (Adelphi, pp155,euro11, traduzione di Alessandra Berello, con una nota di Olivier Philipponat e Patrik Lienhardt) si trova in buona parte degli scritti dell'autrice da sempre consapevole di come "la vita sia forgiata a colpi di sangue", visto che già nel 1931 ne «Les Mouches d'automne» aveva fatto dire alla invecchiata protagonista. "Mi ricordo ancora del sangue giovane che mi ardeva nelle vene" e nel 1935 ne «Le vin de solitude»: "Non posso cambiare il mio corpo, spegnere il fuoco che arde nel mio sangue". <br />
Scritto fra il 1937 e il 1938 e ambientato a Issy- l'Evêque, poco meno di mille abitanti, in Borgogna, nell’ Arrondissement d’Autun (quello stesso paesino del Morvan in cui Irène cercherà rifugio con la famiglia e dove sarà poi arrestata) «Chaleur du sang» è stato ritrovato dai biografi e pubblicato in Francia nel 2007. <br />
Fresco di stampa ce lo propone ora Adelphi che sta curando l'opera omnia dell'autrice. <br />
Questa volta teatro dell'azione non è più l'alta borghesia ebraica in cui la scrittrice è cresciuta, o l'ambiente dei ghetti dell'Europa orientale, ma il piccolo mondo agreste della provincia francese. <br />
Qui tutto parrebbe essere terso, pulito, persino insulso, oseremmo dire, visto che incontriamo l'inappuntabili e agiate famiglie che stanno organizzando il matrimonio di bravi figli. <br />
L'io narrante è un viveur ormai invecchiato, lupo solitario in quel paesaggio boschivo, fertile e ricco di misteriosi stagni. Sembrerebbe che nulla dovesse accadere nel tran tran campagnolo di quelle serene vite, ma la penna soavemente crudele della Némirovsky ci invia criptati messaggi, acuminate avvisaglie che ci inducono a scoprire come sotto la levigata vernice di armoniosa serenità agreste, ribolle quel torrido "calore del sangue" che condurrà al reiterato peccato e al delitto, riservandoci un epilogo a sorpresa, secondo la miglior cifra némirovskyana.)<br />
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Fanny Némirovsky è morta nel 1972 – novantasettenne - . Era vissuta agiatamente del tutto incurante delle nipoti.<br />
La sorella Viktoria è morta a Mosca – novantaquattrenne – l’unica a ricordare la vita anteriore di Iročka.<br />
Elizabeth Gille, editrice, traduttrice e scrittrice è morta nel 1996. Aveva dedicato alla madre una struggente biografia Le Mirador.<br />
Denise Epstein non immaginava che – pubblicando Suite francese avrebbe restituito sua madre all’amore e alla gratitudine dei lettori.<br />
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COMUNICA UNA SENSAZIONE STRANA, UN LIBRO CHE CI ARRIVA DAL PASSATO. Siamo abituati alle voci sempre presenti dei grandi scrittori che ci hanno accompagnato per secoli con le loro parole, ma un tono mai sentito in precedenza, così distinto, chiaro e forte, crea l’impressione di una presenza vicino a noi e insieme lontana, che ci fa vivere nel suo tempo che è diverso dal nostro. <br />
Una storia straordinaria dietro ad un libro straordinario, la “Suite francese” di Irène Némirovsky, nata a Kiev da famiglia ebraica nel 1903, fuggita con i genitori nel 1918 prima in Finlandia, poi in Svezia e infine in Francia, dove sposò Michel Epstein nel 1926. Durante la guerra Irène Némirovsky fu deportata prima a Pithivier e poi ad Auschwitz, dove morì nel 1942. <br />
Le sue due bambine riuscirono a salvarsi, anche se sempre in fuga, nascoste da persone compassionevoli. Non abbandonarono mai la valigia in cui la madre aveva messo i suoi manoscritti, senza avere però la forza di leggerli, meno che mai quando la guerra finì e loro iniziarono ad aspettare ogni giorno un ritorno impossibile, sui marciapiedi dei treni che scaricavano pallide ombre. <br />
Solo mezzo secolo dopo avrebbero letto, con la lente di ingrandimento, quelle carte, decifrando i caratteri che parevano file di formiche sui fogli. Si trattava dei due primi romanzi di quella che doveva essere come una sinfonia in cinque parti, “Tempesta di giugno” e “Dolce”, in cui Irene Némirovsky racconta la guerra in Francia. Non la guerra dei soldati, non i retroscena politici della guerra, ma la guerra vissuta dalla gente comune che si trova a fronteggiare situazioni nuove ed estreme, ed ognuno reagisce secondo la sua natura, tirando fuori il meglio o (forse più spesso) il peggio di sé. O semplicemente mostrandosi semplicemente come è. <br />
La “Tempesta di giugno” è lo sconvolgimento provocato dall’occupazione di Parigi da parte dei tedeschi: i parigini fuggono, in un esodo che ricorda quello dei moscoviti in “Guerra e Pace” che abbandonano la città in mano di Napoleone. E non è un caso che proprio Tolstoj venga spesso nominato nelle annotazioni che la Némirovsky faceva nelle pagine a fianco di quelle in cui scriveva il testo del romanzo e che sono riportate in appendice, “rileggere Tolstoj. Indispensabili le descrizioni, ma non storiche”, perché “la guerra finirà e tutta la parte storica sbiadirà”. Una massa di persone che si muove come un fiume in piena, e l’attenzione della scrittrice si ferma su alcuni personaggi, i Péricand, ricchi borghesi che mettono in salvo mobili, argenteria, biancheria e partono con il seguito di domestici, il collezionista a cui importano solo i suoi preziosi oggetti, lo scrittore Corte e i suoi manoscritti, il banchiere e la sua amante. <br />
Ma le strade sono ugualmente intasate per tutti, manca la benzina, gli alloggi per riposarsi lungo il percorso della fuga sono pieni, gli alimentari scarseggiano. Non c’è scampo allo sguardo attento e impietosamente rivelatore della Némirovsky che ritrae meschinità ed egoismi. C’è solo la coppia di impiegati, i Michaud, che mantiene la propria dignità e umanità e riappare in un ruolo secondario nel secondo romanzo, “Dolce”: una storia più intima e circoscritta, l’amore tra la francese Lucile e il tenente tedesco che ha requisito la sua casa. Un rapporto mai consumato in cui prevale la dolcezza, appunto, un’intesa di sentimenti e di inclinazioni, un’affinità spirituale che induce a dimenticare che il tedesco è il nemico di oggi e di ieri. <br />
Non possiamo che rimpiangere che Irène Némirovsky non abbia potuto scrivere gli altri tre romanzi che aveva in mente e che avrebbero completato la sinfonia letteraria.<br />
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Sinfonia in due tempi<br />
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spesso chi si occupa di critica letteraria tende a parlare di “capolavoro”. Ma nel caso di “Suite francese” di Irene Némirovsky (Adelphi, pp.415, euro 19) le lodi sono più che meritate, perché ci ritroviamo tra le mani un romanzo di rara bellezza, nell’elegante traduzione di Laura Frausin Guarino, impreziosito dalla postfazione di Myriam Anassimov .<br />
Pubblicato postumo in Francia, a cura della figlia Denise Epstein che per ben sessant’anni aveva conservato il manoscritto della madre, vergato in finissima scrittura, chiosato con appunti e note della stessa autrice , questo prodigioso romanzo, giunge a noi in Italia a un anno di distanza. Scritto in presa quasi diretta con gli avvenimenti narrati dei primi bombardamenti su Parigi, con la fuga precipitosa degli abitanti atterriti per l’arrivo dei tedeschi nella capitale francese nel giugno del 1940, la narrazione ci porta al centro di una storia tanto straordinaria quanto struggente. Il progetto iniziale della scrittrice era quello di ritmare le sue pagine nella struttura di una sinfonia per cui – apprendiamo dalle sue stesse note che appaiono in Appendice – avrebbe dovuto avere un andamento in cinque movimenti, ma noi possiamo leggerne solo i primi due, rammaricandoci della forzata “mutilazione”, perché la sfortunata autrice ebbe il drammatico destino di essere arrestata e poi deportata a Auschwitz..<br />
Nata a Kiev, figlia di un banchiere ebreo, la Némirovsky già aveva conosciuto il dramma della fuga ai tempi della rivoluzione russa del 1917. In Francia aveva trovato l’amore – sposandosi nel ’26 con Michel Epstein – e il successo di affermata scrittrice. Madre di due figlie, conduce un’esistenza piacevole e agiata finché il destino non le riserva il fatale epilogo. Sarà dalle mani del padre, in seguito vittima della stessa fine, che le due piccole figlie riceveranno il manoscritto con le due prime parti del romanzo. Vivranno nascoste, affidate a una affezionatissima tata per tutto il periodo bellico. È stata molto toccante la testimonianza che ha reso per noi Denise, nel corso di una recente trasmissione radiofonica di Rai tre, dove intervistata da Sinibaldi, ha ricordato come lei e la sorellina avevano atteso il ritorno dei genitori, sperando di rivederli tra i sopravvissuti ai campi di sterminio, e come per molti anni non avevano avuto il coraggio di leggere quelle quattrocento pagine di un romanzo in cui verità e finzione si sposano in un inscindibile e commovente connubio.<br />
La carrellata di personaggi parigini in fuga, descritti dall’autrice, spesso corrisponde a figure reali, veramente conosciuti anche dalle due bambine. Vedasi la famiglia borghese dei Péricand, paradigma della buona borghesia francese, squallidamente conformisti, ingessati nei loro pregiudizi, di cui lo sguardo disincantato dell’autrice ci regala ritratti di alta bravura, ridicolizzandone i limiti e le manie e i tic, in maniera indimenticabile. Così, dopo aver letto della parsimoniosa oculatezza della signora Péricand che imballa ogni cosa per la fuga da Parigi e porta scrupolosamente con sé i suoi beni materiali e i suoi figli e i suoi domestici e il suo spirito caritatevole sempre esibito, non possiamo non restare esilarati dalla sua non certo piccola dimenticanza del suocero disabile in carrozzella :“Guardò ancora una volta tutto quello che era riuscita a portare con sé, ‘tutto quello che aveva salvato!’: i suoi figli la sua valigetta. Toccò i gioielli e il danaro nascosti sul petto. Sì, in quei terribili momenti aveva agito con fermezza, coraggio e sangue freddo, non aveva perso la testa… Non aveva perso… Non aveva … Improvvisamente gettò un grido strozzato (…) Abbiamo dimenticato mio suocero- disse la signora Péricand, scoppiando in lacrime”. E scene del genere divertirebbero il miglior Dickens. E le pagine della fiumana ribollente dei parigini in fuga piacerebbero a Tolstoj, citato negli appunti dalla stessa scrittrice.<br />
Ritratto indimenticabili anche quello dello scrittore Gabriel Corte, un esteta preoccupato dei suoi manoscritti che ha orrore della povertà, e quello della ballerina Arlette, disposta a qualsiasi compromesso, per la sua sopravvivenza, cinica ad oltranza. E come dimenticare i coniugi Michaud così saggi nella loro modestia e dolcezza, contrapposti all’arido banchiere? E i collezionisti di preziose porcellane, presi solo dal salvataggio dei loro oggetti? Anche l’episodio degli orfani che si rivoltano all’ingenuo prete diventando spietati aguzzini merita una lunga riflessione, proprio perché la “pietas” della Némirovsky spesso è a doppio taglio, colorandosi dell’ossimoro di note crudeli.<br />
La massa di persone in movimento con i personaggi di cui sopra, intenti a porre in salvo soprattutto mobili, suppellettili e argenteria è contenuto nel primo movimento della “Suite française”, intitolato “Temporale di giugno”; in “Dolce” riappaiono di striscio i coniugi Michaud, forse gli unici capaci di mantenere il dignitoso calore della loro umanità. In questa seconda parte del romanzo, protagonista è soprattutto la storia d’amore tra la francese Lucile e il tenente tedesco che ha requisito la sua abitazione. Un rapporto che non ha implicazioni fisiche, fatto di un dolce sentimento, di un’intesa intellettuale e spirituale, un’affinità così coinvolgente da far dimenticare alla donna e a noi stessi che il tedesco è il nemico.<br />
Resta vivo il rammarico dell’opera incompleta, dei tre tempi finali che l’autrice aveva progettato nei suoi appunti, così come aver visto premiato postumo il romanzo in Francia, ci ha riportato – per associazione d’idee – la malinconica immagine delle medaglie d’oro appese al petto degli orfani dei caduti in guerra.<br />
Grazia Giordani<br />
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</div><div align="left" class="grazia"><b><i>Grazia Giordani</i></b></div><div align="left" class="grazia"><span style="font-size: xx-small;">Data pubblicazione su Web: <b>07 Marzo 2010</b></span></div><div align="center" class="grazia"><b><a href="http://www.graziagiordani.it/php/articoli/articoli.php?modo=0" target="_self">Torna all'indice degli <i>Articoli</i></a></b><b>Conversazioni su Irène Némirovsky</b></div><div align="left" class="grazia"><br />
</div>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-57417631917572150812011-12-06T13:33:00.001-08:002011-12-06T13:33:34.401-08:00Triangolo di lettere<span class="grazia"><br />
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<div align="center" class="grazia"><b>"Triangolo di lettere"</b><i> Carteggio pubblicato da Adelphi</i><b><br />
</b></div><div align="left" class="grazia"><b>Nietzsche Lou von Salomé e Rée: un pruriginoso, ambiguo terzetto</b><br />
Un terzetto che ha fatto sbocciare alla grande il malizioso fiore del pettegolezzo sulla bocca dei benpensanti, quello formato dai due amici filosofi Friedrich Nietzsche e Paul Rée in compagnia della fatalissima giovane russa Lou von Salomé. Un sodalizio inquietante e ammantato dall'ambiguità che nemmeno la pregevole pubblicazione del carteggio <i>Triangolo di lettere</i>, (a cura di Ernst Pfeiffer, nell'edizione originale) e curato da Mario Carpitella, nella pubblicazione italiana, fresco di stampa - uscito per i tipi dell'Adelphi -, riesce del tutto a chiarire, pur permettendoci di ripercorrere il tortuoso cammino che fra l'aprile e l'ottobre del 1882 ha visto i tre amici intimamente accomunati.<br />
Il carteggio non si limita all'anno cruciale dell'82, ma ha un respiro più vasto (1875-1884) ed è il frutto di un difficile impegno editoriale che - avviato nel 1936 da Schlechta e poi ripreso ed ampliato da Pfeiffer è giunto a compimento solo nel 1970. Merito di Carpitella è stato quello di arricchire l'edizione italiana con documenti inediti raccolti da Mazzino Montinari, con un occhio all'edizione critica Colli-Montinari dell'<i>Epistolario</i> e uno ai risultati più recenti della ricerca internazionale su Nietzsche.<br />
Eppure - precisa in prefazione Carpitella - "Chi da questo libro si attende risposte definitive circa il reale rapporto di Nietzsche con Lou von Salomé - interrogativo che da sempre ha travagliato chi si è occupato della biografia del filosofo, fino ai rotocalchi culturali e al cinema - rimarrà probabilmente deluso. La lacunosità del materiale documentario, censure e rimozioni di vario tipo si oppongono a ogni tentativo di fare finalmente chiarezza, consentendo così anche fantasiose e poco documentate interpretazioni in chiave psicoanalitica o addirittura omosessuale".<br />
Se il carteggio non dissipa i dubbi sulla "peccaminosità" del triangolo (è stato sì o no un trasgressivo ménage à trois?), pone piuttosto in luce il sofferto e deluso innamoramento di Nietzsche, pur trattandosi di una "infatuazione intellettuale". ("Io sento in Lei altro che questi moti. Rinuncio volentieri ad ogni intimità e vicinanza, se solo posso esser certo di questo: che siamo concordi là dove le anime comuni non arrivano" e ancora: "...quella volta a Orta avevo deciso in cuor mio di fare partecipe Lei per prima della mia intera filosofia. Ah, lei non immagina quale decisione fosse quella: credevo che non si potesse fare dono più grande. Un'impresa di lunghissima lena..."). Sempre di origine intellettuale appare essere anche il rammarico per la scoperta del "tradimento" degli amici, rinfocolata dalle presunte rivelazioni della sorella, visceralmente ostile alla giovane russa, che non è certo la fatina benefica della vicenda, rosa da gelosia corrosiva nei confronti della giovane.<br />
Il sogno di Nietzsche di creare un "convento di spiriti liberi" veniva miseramente infranto e questo sembra essere il tradimento più bruciante e doloroso per il genio del pensiero mondiale, l'autore dello Zarathustra che aveva pensato alla donna incline a "egoismo ferino", come alla sua "erede", dotata di "impulsi superiori". Erano gli anni in cui il filosofo stava approfondendo studi intens,i intesi a fondare scientificamente il "pensiero abissale" dell'eterno ritorno, di cui troviamo per la prima volta traccia nella Gaia scienza, in un aforisma sublime per potenza di pensiero e poetica espressività.<br />
Le lettere - seppure in maniera frammentaria - ci raccontano come Nietzsche, svanita la delusione, (si sa che il tempo è un grande medico, capace di farci sublimare anche i dolori più cocenti) tornerà ad accettare il suo destino di solitudine e ad allontanarsi dalla sorella, la cui ingerenza nella vicenda era stata più che deleteria, vista la pessima opinione che nutriva nei confronti della disinibita "avventuriera", come più volte definirà la giovane Salomé. Nel 1884 Nietzsche giungerà addirittura a scrivere: "...di tutte le conoscenze che ho fatto, una delle più preziose e feconde è quella con Lou. Soltanto dopo averla frequentata sono stato maturo per il mio <i>Zarathustra</i>."<br />
Ormai invecchiata, la stessa Lou Andreas-Salomé, così rivisitò, descrivendola, la sua situazione interiore degli anni di frequentazione nietzscheana: "Era inevitabile che, della natura e del pensiero di Nietzsche, mi affascinasse proprio quel che di rado trovava parola nelle sue conversazioni con Paul Rée - Nondimeno... esitavo a intraprendere quel cammino da cui mi ero dovuta allontanare per attingere chiarezza".<br />
Insomma Nietzsche è il genio, il super intelligente del terzetto, eppure l'affascinante Lou (che stregò in seguito anche Rilke, Freud e Pfeffer, per citarne solo alcuni fra i più noti), gli preferisce Rée, un filosofo che ha preso luce riflessa dal confronto con Nietzsche, così come Teleman lo ha guadagnato dal confronto con Bach o Salieri da quello con Mozart. Ed è forse questo l'elemento che maggiormente ci stupisce e ci fa soffrire della delusione di Nietzsche, anche se ci conforta constatare che questo "giocoliere nell'arte di superare se stesso", sia riuscito a sublimare nel Pensiero la sofferenza.</div><div align="left" class="grazia"><b>Grazia Giordani</b></div>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-74920635467713084312011-11-27T12:46:00.001-08:002011-11-27T12:46:35.407-08:00Foresta di simboli<div align="center" class="grazia"><b>FORESTA DI SIMBOLI I pittori simbolisti italiani a confronto con i maestri Klimt e von Stuck</b></div><div align="left" class="grazia">Ci è apparso un avvenimento di rara eccezione riuscire a concentrare in una mostra d’arte un vasto ventaglio di stati d’animo, quasi soprassalti del cuore. Eppure, chi percorre le otto sezioni tematiche dell’esposizione patavina Il Simbolismo in Italia, visibile dal 1 ottobre 2011 al 12 febbraio 2012, non può sottrarsi al clima che i curatori Fernando Mazzocca, Carlo Sisi con Maria Vittoria Marini Clarelli, hanno saputo evocare, soprattutto nelle ultime sezioni, dove poeti come Baudelaire e Rimbaud, insieme al nostro D’Annunzio, si sarebbero sentiti di casa, perfettamente inseriti in spazi consonanti con la loro visione di arte incontaminata dalle problematiche sociali, dove la realtà apparente, quella percepibile con i sensi, nasconde una realtà più profonda e misteriosa, improntata ai grandi valori dell’umanità, quali: il senso della vita, la morte, il sogno, il mito, il mistero, l’enigma, valori che il tecnicismo minacciava di distruggere. <br />
Altro grande merito della mostra, è quello di essere veramente la prima che ha volto lo sguardo al Simbolismo in Italia nella sua totalità. Sappiamo bene che non è possibile dividere le correnti artistiche in compartimenti a sé stanti, quindi il “trittico” poesia, musica e arti figurative sembra ispirato di pari passo dagli stessi temi di farsi avulso dalla realtà, volto ad una morbida e dissimulata sensualità che sembra cogliere le remote radici dell’essere. Se Parigi gode il primato della prima mostra di Nabis, nel 1891, Milano risponde pronta con la prima Triennale di Brera, prefiggendosi, fra l’altro, di dare luce alle nuove esperienze “antiaccademiche”. Si sa che le novità possono creare dissensi (Picasso docet) oltre a perplessità e scandalizzati pensieri, quindi, ammirando nella mostra padovana, la Maternità di Gaetano Previati, così onirica e volutamente sfatta, non stentiamo a credere alla querelle che avrà scatenato nell’esposizione milanese, soprattutto perché contrapposta alla versione più realistica, proposta da Le due madri di Giovanni Segantini. Va da sé che il fruitore d’oggi si senta più vicino ad una voce innovativa, scevra da nostalgie veriste. Gli autoritratti della prima sezione sono tutti degni d’interesse, ma ci siamo soffermati con particolare interesse su quello del Previati stesso, incuriositi anche dal polverone che aveva saputo sollevare. Una delle opere – a nostro giudizio – più impressionanti e quindi capace di creare l’inquietudine tipica del miglior simbolismo, è l’opera di Mario de Maria, Luna. Tavole di un’osteria ai Prati di Castello, per la presenza/assenza dell’omicidio consumato, misteriosa per le circostanze soltanto alluse: si capisce che lì è stato sparso del sangue, ma non si vedono cadaveri e la luce lunatica accende morbose fantasie.<br />
Uniformandoci a quanto scrisse in proposito Henry-Frédéric Amiel, va sottolineato come in questa esposizione, il paesaggio sia più che mai ‹‹uno stato dell’anima››, ovvero un sentimento panico della natura dove primeggia il fascino baluginante delle nebbie, dei bagliori lunari, in diretta simpatia con la psicologia ipersensibile degli intellettuali fin de siècle. Staffetta di questo tema è appunto l’Isola dei morti di Böcklin nella versione di Otto Vermehren, sottolineando anche l’angoscia di Pelizza da Volpedo, mascherata con teschi, edera e violette. Così la natura si fa velato e disvelato specchio degli artistici rovelli interiori.<br />
La donna è poliforme: sfinge (Bistolfi), sirena (Sartorio), Cleopatra (Previati), per raggiungere l’acme insuperato nei due grandi del Simbolismo tedesco, esposti anche in Biennali veneziane che brillano nelle sale ultime dello Zabarella con Il Peccato di Franz von Stuck e la Giuditta di Gustav Klimt, a noi apparsa come il capolavoro dei capolavori, dotata persino di una capacità medianica di creare un transfert tra se stessa e il fruitore. Sembra che non siamo noi ad ammirarla, ma lei a guardarci, seduttiva e minacciosa, ambigua e stregonesca femme fatale, dalle mani artigliate, sovraccarica di gioielli. Difficile non identificarla con Alma Malher che ammaliò – se ci passate l’ossimoro – in contemporanea successione, artisti quali Malher, Gropius, Kokoscha e Werfel, lasciando il cuore di Klimt velenosamente infranto.<br />
Grazia Giordani<br />
PUBBLICATO VENERDì 28 OTTOBRE IN ARENA, GIORNALE DI VICENZA E BRESCIAOGGI</div><div align="left" class="grazia"><b><i>Grazia Giordani</i></b></div>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-12561257876531497132011-11-27T06:26:00.001-08:002011-11-27T06:26:31.885-08:00Sognando un'attesa<div align="center" class="PlainText" style="text-align: center;"><span style="font-size: 20.0pt;">L’ATTESA (titolo provvisorio)<o:p></o:p></span></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Mi comportai come quello che esce di casa dicendo: "Vado a comprare le sigarette!” e poi per tutta la vita non si fa più vivo. Non ne potevo più di quella noiosa riunione tra colleghi del giornale a discutere del sesso degli angeli. Un bla bla senza senso, improduttivo, mentre ci trovavamo in una delle città più raffinate del mondo, dove un tempo avevo lasciato un piccololo lembo di me stessa che, ciclicamente, riaffiorava. Ricordate la proustiana madeleine? Basta un nulla, lo sguardo ironico di un uomo qualsiasi per la strada, un luogo che somigli ad altri visitati insieme o ancor più che si sarebbero voluti visitare. Una risma di carta sottile, esposta in vetrina, simile a quei veli fittamente scritti che ricevevo da lui nei miei anni poco più che adolescenziali. Basta una c aspirata da un ignaro passante, a far ruscellare un profluvio di ricordi veri o immaginati, perché la memoria gioca sorniona dentro il nostro cuore, regalandoci una riserva di momenti salvifici cui pensare, quando la vita ci delude e tutto ci sembra perduto.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Presi la direzione del Giardino di Boboli per meglio cullare i ricordi. Non fu una scelta a caso, perché nel corso di una sua ultima telefonata – appariva e scompariva come una fatamorgana – mi aveva detto che il suo balcone si affacciava proprio su quel giardino dei nostri giovanili incontri.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Cosa speravo? Di vederlo affacciato in shakespeariano flash surreale?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">No. Sapevo che l’avrei visto solo nello sguardo di altri uomini o meglio in quello che avevo interiorizzato, un’occhiata lunga, come il passato che non si distrugge, quell’insidioso paese straniero, folto di vicoli e strade maestre che s’intersecano all’infinito. Dicono che Mozart sentisse le sue opere in fieri dall’inizio alla fine. Ecco, in quel momento, anch’io sentivo la mia vita come se l’avessi vissuta realmente con lui. Come se in quell’innocente passeggiata nello storico giardino, le nostre mani non si fossero limitate a sfiorarsi appena. Quante cose possono dirsi le mani! Quanto desiderio può bruciare palmi e pensieri, muta la bocca, elusivi gli sguardi . . . Eppure, sebbene affogata dentro queste fantasticherie, ogni tanto volgevo gli occhi verso quello che pensavo potesse essere il suo balcone non so se più ansiosa o timorosa di rivederlo.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Così trascorse la mattinata. Cosa avranno pensato di me i colleghi? Presto sarebbero dovuti tornare a Verona. Poco male, me la sarei cavata con una telefonata di scuse.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Le corolle dei fiori, intorno a me, ubriache di sole, pareva volessero</span></i></b><span style="font-size: 14.0pt;"> contagiarmi <b><i>verso la strada della follia.<o:p></o:p></i></b></span></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">E se gli telefonassi?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Basta una guida telefonica per trovare i numeri.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">A casa no.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Severamente proibito.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Nel suo studio?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Che dire al centralinista</span></i></b><span style="font-size: 14.0pt;">?<o:p></o:p></span></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Mio dio, no.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Il mio destino è quello di restare la gozzaniana “rosa che non colsi”.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Uscita dal mitico giardino, trapunto di ricordi, mi avviai verso un anonimo caffè poco lontano. Accomodata in un tavolino in ombra, desiderosa di restare in compagnia dei miei ricordi, credetti di vedere un uomo di media statura, più magro del Franco di allora. Un po’ di neve era caduta sui suoi non folti capelli, ma la mamo protesa verso la tazza, aveva la stessa sinuosa maniera di porgere. Un’ondata di piacere m‘invase tutta. Non volevo sapere, non volevo soffrire, quando . . .<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="PlainText" style="text-align: justify;"><br />
</div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><b><span style="font-size: 13.0pt;">@@@<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><br />
</div><div class="MsoNormal"><br />
</div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 13.0pt;">Raramente sedevo ai tavolini dei caffè: ci volevano motivi davvero particolari, incontri intellettuali, pause motivate. Eppure, in quella tarda mattina, stava accadendo qualcosa. Si scioglievano ricordi, inseguivo figure, ricordavo quel profilo dolce, assai femminile, sensuale nello sguardo. E mentre in quella piazza affollata di turisti, venuti a curiosare nella reggia dei granduchi, Marco mi lasciava per avviarsi alla sua libreria antiquaria, mi veniva spontaneo scrutinare quelle signore ancor giovani, gagliarde nei loro passi, garanti ancora di sicuri collaudati piaceri. Ma sbagliavo. Non era signora “da gruppo” quella che fu la mia Ginevra: troppo riservata, troppo colta, troppo individualista nel porsi. Mi girai dunque altrove. Un altrove profondo , che guardava attraverso via Guicciardini, verso il Ponte Vecchio. Un'asta stradale che allora era ancora percorribile sognando, con le mani o con le braccia intrecciate e oggi ormai insopportabile, espropriata ai sentimenti. <o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 13.0pt;">Guardavo ma nulla tornava verso di me. Nessun segnale, nessuna immagine. Eppure continuavo a sentire che qualcosa stava per accadere...<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 13.0pt;">Ma il tempo passava, sopraggiunse la rarefazione del primo pomeriggio, poi la passerella umana riprese il suo ritmo. Ginevra non c'era. O forse non l'avevo riconosciuta: ma no, non era possibile. Semplicemente l'avevo immaginata ma ero fuori da ogni realtà. Ed allora tornai indietro nel tempo – una macchina assurda questa del tempo ! - alla passeggiata per Boboli fino al Kaffehaus, quel curioso edificio lorenese che ricorda le edicole di Vienna e di Praga; un tempo dolce ove io promisi e non mantenni, un tempo che ci avvolgeva proiettandoci altrove. Ma era ancora una stagione in cui i doveri sovrastavano i piaceri e i desideri. Ma sbagliavamo. <o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><br />
</div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><b><span style="font-size: 13.0pt;">@@@<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;"> No, non era sua quella bella mano dalle lunghe dita che aveva lasciato ricami di carezze sul mio corpo e nei miei pensieri. E poi sapevo che non era un habitué di locali pubblici. Preferiva lunghe passeggiate, mano nella mano, raccontandomi della sua Firenze, dei gioielli d’arte della sua città, nei nostri troppo brevi incontri. Eppure, avvertivo come un pulviscolo nell’aria, un alitare di polline di fiori, un preannuncio indefinibile.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;">Ormai i colleghi avevano fatto ritorno a Verona, chiedendosi: “Cosa avrà trattenuto a Firenze quell’enigmatica donna e quale bugia racconterà a casa?” <o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;">Ma non me ne importava, stavo concedendomi un flash di vacanza, uno scampolo di vita, camminando su una via selciata di nostalgie. I sampietrini del passato balzavano fuori dalla mia fantasia, invitanti e provocatori. Come se ce ne fosse bisogno! A volte inganniamo noi stessi con inutili elucubrazioni.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;">Ponte Vecchio mi guardava con occhio sornione, pareva volesse invitarmi a valicarlo ancora una volta, magari per soffermarmi ad ammirare le sue vetrine, ancor più per perdermi dentro la forza ipnotica dell’Arno che scorre.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;">Dopo l’illusione della mano sinuosa al caffè, mi apparvero le sue spalle. Focalizzai quel particolare, legato al suo modo di incedere. Quando lo accoglievo, alla stazione di Bologna, aveva un suo modo timido ed amorevole di curvarsi verso di me, attendendo il mio primo abbraccio. Era un momento magico che vorrei cristallizzare qui nella pagina, proprio mentre lo sto scrivendo.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;">Dunque, era lui?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;">Come nei romanzi dal contorto costrutto, quelli in cui la casualità può farsi causalità (ricordate Il ponte di Saint Louis Rey?) la realtà mi avvolse nel suo serico mantello. La letteratura si faceva sempre più specchio della vita.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;">Si girò al </span></i></b><b><span style="font-size: 13.0pt;">ralenti,<i> come in una scena da film.<o:p></o:p></i></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 13.0pt;">Non ci eravamo mai lasciati.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><br />
</div><div class="MsoNormal"><br />
</div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><b><span style="font-size: 13.0pt;">@@@<o:p></o:p></span></b></div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><br />
</div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 13.0pt;">Il sole, in quel momento, veniva da San Miniato al Monte e proiettava le ombre verso l'angolo del lungarno Acciaioli , così i palazzi della riva destra erano intensamente illuminati, quasi abbaglianti, tagliando nettamente le figure che popolavano quello storico crocevia. Finalmente, eccola ! Smagliante come sempre, figura che non sfuggiva agli astanti . Fu come riguadagnare vent'anni di colpo: ci sorridemmo , affidando, intanto, a quel sorriso tutte le cose passate presenti e future. Un sorriso è capace di tanta sintesi. E subito ci avviammo verso palazzo Corsini , aperto per la settimana della Biennale dell'Antiquariato. Camminammo per il marciapiede , ma prima di entrare in palazzo volle rivedere l'Arno dall'angolo di ponte Santa Trinita. Le dissi, con un po' di civetteria – peraltro sempre perdonata – del mio ultimo restauro a quel ponte , poi guardammo verso Ponte Vecchio , scrutinando gli edifici e l'abside in aggetto sul fiume della chiesa di san Jacopo Oltrarno. <o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 13.0pt;">Sentivo in lei tanta della mia vita non realizzata, sentimenti intimamente conservati, eventi lasciati in attesa : quasi una vita contigua non avuta. Il percorso fra i box dei tanti antiquari - da quelli di Londra a quelli di Parigi, dai romani ai fiorentini – fu occasione per misurare le nostre conoscenze in arte; e Ginevra ne uscì soccombente, solo per poco. Le sue ininterrotte attenzioni e presentazioni per gli artisti contemporanei – soprattutto veneti - le avevano consentito aggiornamenti davvero avvertibili. <o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 13.0pt;">La discussione, anzi il confronto più vivace fu davanti ad alcune vedute del Canal Grande del Guardi e del Canaletto. Divergenze sulla luce nei due grandi artisti, confronto con le vedute dell'Arno e di piazza Signoria (di Budapest). <o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 13.0pt;">L'<i>Harris Bar, </i>ancora sul lungarno, dopo piazza Goldoni , ci consentì finalmente di sedere. Mi fermai sul suo sguardo dolce e allusivo, il suo seno dolce e generoso, la sua garbata gestualità. Era ancora lei. Più matura, più bella, ancor più desiderabile. Nel sederci ci sfiorammo involontariamente sotto il tavolino, poi invece di proposito, indovinando qualcosa che non avevamo mai avuto. <o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><br />
</div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><b><span style="font-size: 13.0pt;">@@@<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Temevo di svegliarmi come accade nei sogni più belli, quelli che si sciolgono all’alba. La sintonia nell’avvertire in entrambi “tanta della nostra vita non realizzata” si traduceva in addolorata gioia, divenendo un amletico languore.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Se Amleto avesse sposato Ofelia, avrebbero potuto vivere veramente felici, o la noia sarebbe infine sopraggiunta a banalizzare il loro sentimento?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Mi perdevo, al solito, in queste divagazioni letterarie, perché ero spaventata dall’ondata di calore che m’invadeva al contatto, prima fortuito e poi voluto da entrambi, che si era creato tra le nostre ginocchia sotto il tavolino.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Feci una cosa ardita che non mi somigliava per nulla, che se avessi vista compiere da altri mi sarebbe parsa addirittura oscena. Mi sfilai un mocassino, un’innocente calzatura che, docile, mi aveva condotta con lui all’</span></i></b><b><span style="font-size: 14.0pt;">Harris Bar<i>, dopo aver goduto delle sue colte divagazioni artistiche</i>.<o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Non mi riconoscevo più, non ero più io, la schizzinosa signora che nella vita non avrebbe mai voluto compiere banalità. Il mio piedino nudo prese a scorrere lungo la sua gamba fremente. Riprovai lo stesso squassante piacere che mi coglieva sola nel letto di casa, quando la notte ripensavo ai nostri candidi incontri di giovinezza.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Con uno strano sdoppiamento, ero lì, eccitata al suo fianco, e nel contempo mi rivedevo seduta con lui in una sala cinematografica bolognese, mentre guardavamo </span></i></b><b><span style="font-size: 14.0pt;">Quel pasticciaccio brutto di via Merulana<i>, le mani strettamente congiunte, soffocati dal desiderio represso.<o:p></o:p></i></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Che spreco di piacere era stato il nostro!<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Ma che fosse rimasto intatto, proprio perché non l’avevamo consumato?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">A cosa ci avrebbe portato questo tardivo recupero?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">A un dolore ancora più cocente, nel doverci poi separare?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Mai avremmo voluto arrecare danno alle reciproche famiglie.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Questo era un flash solo nostro, mi dicevo per giustificarmi.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">E il piacere si stava mutando in un fiore di luce che spalancava la corolla dentro il mio ventre, mentre non osavo pensare cosa stesse accadendo a lui.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Dunque, anche gli intellettuali, quelli che hanno sempre pensato di cibarsi di arte musica e letteratura, possono sentire così ard<a href="" name="_GoBack"></a>ente l’urlo della carne?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Anche in età matura?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Questa per me era un’incredibile scoperta. <o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><br />
</div><div class="MsoNormal"><br />
</div><div class="MsoNormal"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;"> *<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 14.0pt;">Il taxi arrivò rapidamente <i>“Roma 22 , tre minuti”.</i> Già nel salire verso quel primo piano , seguendola, le accarezzavo i fianchi. Poco prima di aprire la porta d'ingresso la girai verso di me, l'accarezzai, le detti un bacio sulla tempia, un lungo bacio sui capelli. Entrammo. <o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal"><b><span style="font-size: 14.0pt;">Fu lei per prima a togliersi il soprabito, apparendo così con un golf color panna che accompagnava assai bene il colore dei suoi capelli. La invitai a sedere sul divano di pelle disegnato dalla Gae per Poltonova , così fu ancora lei a precedermi e stendersi con le sue spalle su di me. L'abbracciavo e le carezzavo i seni sentendone turgide quelle piccole estremità. Un momento tanto atteso, desiderato, immaginato e finalmente, realizzato. Seguì una pausa . Una pausa che riassumeva un tempo indefinito, indefinibile. Ginevra era ancora carica di passione, di curiosità, di grazia: il suo corpo, tutto il suo corpo era ancora vigoroso , ostentava sicurezza, era forse più esperiente e appetibile di quello dei suoi anni giovanili. Sul mio viso sentivo i suoi capelli . L'abbracciai stretta quasi a soffocarla – mi disse - , poi fu ancora lei per prima a girarsi e sedersi con le gambe incrociate verso di me . Ci baciammo a lungo, la baciai sugli occhi, la baciai sui seni, le accarezzai quelle puntine ora assolutamente rigide, l'accarezzai ovunque, ripercorrendo un tempo perduto. Si alzò e mi trascinò verso il letto. Rapidamente si spogliò e volle che anch'io facessi altrettanto. Così conobbi finalmente il movimento dei suoi occhi, dolcissimi, nel momento dell'amore.<o:p></o:p></span></b></div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><br />
</div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><b><span style="font-size: 14.0pt;">@@@<o:p></o:p></span></b></div><div align="center" class="MsoNormal" style="text-align: center;"><br />
</div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Sapevamo entrambi che questo era solo un flash di vita, una parentesi tutta nostra che non avrebbe portato a nessuna rottura familiare. Non c’era nemmeno bisogno di dirlo, era implicito. Eppure, come rinunciare del tutto? Perché non provocare qualche nuovo sporadico incontro?<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Lo lasciai, piangendo, alla stazione di Firenze.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Francesco si guardava intorno, timoroso di incontrare amici.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">L’incantamento sembrava finito.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Tornata a casa, ripensavo a quei momenti d’estasi come a una grazia meritata, <span style="color: #c00000;">perché lui c’era prima</span>. <o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">E, nella mia fantasia, non aveva mai smesso di esserci.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Qualche telefonata intercorse ancora tra noi.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Qualche mail non troppo frequente.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Entrambi sentivamo il pericolo di un legame troppo pressante.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Eravamo dei ragionevoli folli.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">La primavera si era fatta ingorda di estate nella mia amatissima Spina.</span></i></b><b><span style="font-size: 14.0pt;"><o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Come per incanto, lo vidi camminare lungo la battigia, vestito di tutto punto, con l’aria sorridente di chi mi stava aspettando . . .<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Lo invitai a salire nel mio minuscolo appartamento, quasi un ventre materno che mi protegge dalla routine della vita.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">La luce violetta della sera ormai avvolgeva benigna pensieri e cose attorno a noi.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Quante volte, inquadrato dal rettangolo di quella piccola finestra avevo seguito il mutamento delle stagioni, ritmato dalle rose in boccio sul terrazzo, poi roride corolle, quindi petali sfatti, paragonandoli al film della mia vita – quello che stavo vivendo proprio adesso</span></i></b><b><span style="font-size: 14.0pt;"> -<i>, da bocciolo a fiore pieno, addirittura un po’ fané. Avete un bel dire che conta la classe, lo chic, la distinzione, ma non perdiamoci in inutili malinconie. Appoggiati al davanzale della finestra, Francesco ed io, ripensavamo all’eccitante giornata fiorentina, non famelici come allora, più misurati, pronti a centellinare il piacere come un raro liquore. L’amore, questa volta, avremmo dovuto gustarlo a sorsi brevi ed intensi. Avete mai sentito il profumo di una donna che sta per congiungersi all’uomo del suo cuore? Qualcosa di animalesco, tenero e pieno nel contempo si sprigiona da lei, una mistura di miele e pepe che illanguidisce i sensi, esaltandoli. <o:p></o:p></i></span></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Lente carezze reciproche cercavano i punti sensibili dei nostri corpi.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Danzavano ardenti le lingue dentro le nostre bocche.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">La rosa bruna del mio ventre, si apriva, liquida, a riceverlo fino in fondo.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">“Sei piena di me” – come potrò mai dimenticare questa tua espressione? <o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Il terrazzo poi ci accolse, complice, le ultime stelle tra i pini, un barlume di luce riflessa nel tuo sguardo appagato.<o:p></o:p></span></i></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><i><span style="font-size: 14.0pt;">Ma eravamo personaggi reali o la freudiana proiezione di un troppo a lungo rinviato sogno?</span></i></b><b><span style="font-size: 14.0pt;"> <o:p></o:p></span></b></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><br />
</div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><b><span style="font-size: 14.0pt;">Racconto a quattro mani di Ginevra & Francesco<i><o:p></o:p></i></span></b></div>graziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6388147458980008787.post-22132985275438716832011-11-23T09:29:00.001-08:002011-11-26T11:07:46.502-08:00IL GATTOUn fatto è certo che non si resti mai delusi leggendo i romanzi di Simenon. E <i>Il Gatto</i> (pp.165, euro10) che Adelphi ci propone ben tradotto da Marco Bevilacqua, rifulge di una sua crudele bellezza, rientrando in quel duro filone in cui l’autore descrive il fallimento della coppia e le miserie della vecchiaia. Fa da cornice all’algida vicenda l’atmosfera volutamente stagnante, entro cui i due protagonisti - Émile Bouin, settantatré anni, ispettore dei lavori pubblici in pensione e Marguerite Doise, settantun anni -, entrambi vedovi, risposatisi otto anni prima, sono giunti a giurarsi un implacabile odio reciproco non smettendo mai di spiarsi, cercando l’uno nell’altro i segni della reciproca vecchiaia e l’approssimarsi della morte. Questa situazione dura da quando è morto l’amatissimo gatto di Émile che l’uomo sospetta sia stato avvelenato dalla moglie per vendetta, visto che non sopportava la presenza, ai suoi schizzinosi occhi, inopportuna ed ingombrante, dell’animale.<br />
In letteratura, non è il primo esempio di un fatto simile, basterebbe riprendere in mano <i>La Chatte</i> di Colette – pur con le dovute differenze di clima e di scrittura – per ritrovare richiami alla penosa situazione. Ma la vendetta genera vendetta e l’esacerbato marito strappa le penne al pappagallo di Marguerite, provocandone la morte. Ora l’ara troneggia impagliata nel salotto. Da quel momento i due non si rivolgono più la parola, comunicando solo con lapidari, perfidi bigliettini. Nel timore che uno cerchi di avvelenare l’altro, si recano a fare la spesa ciascuno per conto proprio, conservano le provviste in credenze chiuse a chiave e si preparano pasti separati. L’odio è diventato un’abitudine cui non sanno rinunciare e ciascuno si adopera per trovare il modo di tormentare l’altro. Al minimalismo del linguaggio prosciugato, lontano da qualsiasi abbandono lirico, fa contrasto una costruzione narrativa tortuosa e molto elaborata, densa di flash back che ci raccontano la vita precedente di Marguerite, di estrazione sociale di gran lunga superiore a quella del marito, vedova di un raffinato musicista e l’esistenza precedente di Émile, da manovale diventato ispettore ai lavori pubblici, ora in pensione e pieno di rimpianto per Angèle, la sua prima moglie, allegra, carnale, piena di vita, in contrasto con l’esangue Marguerite che non condividerà mai con lui i piaceri del letto.<o:p></o:p>Avrebbero potuto essere due solitudini – pur nelle differenze sociali – pronte a darsi reciproco conforto. E questo, forse, era stato il proposito iniziale di entrambi – ma non ha tardato a crearsi un velenoso livore tra i coniugi che sin dall’incipit cogliamo nella loro quotidianità, soffocati dall’atmosfera asfissiante che <u>aleggia</u> loro intorno come una maledizione. Émile compie anche un tentativo di evasione dalla schiacciante routine, rifugiandosi tra le braccia della donativa Nelly, pronta, come in tempi passati, a offrirgli ogni genere di conforto. Ma l’esperimento fallisce, perché l’odio è diventato motivo di esistere, un sentimento vitale a cui non sanno rinunciare, perché è per entrambi l’unica maniera di esorcizzare la morte.<br />
Come sempre, l’epilogo lo lasciamo ai lettori, aggiungendo solo la notizia che il bellissimo romanzo ha conosciuto un adattamento cinematografico nel 1971, girato da Pierre Granier-Deferre con Simone Signoret e Jean Gabin nei due ruoli principali.<br />
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Grazia Giordanigraziagardeniahttp://www.blogger.com/profile/12265067888825450810noreply@blogger.com1