Fulvio
Tomizza
(1935-1999)
Immaginate
un ragazzo di bell’aspetto, vagheggiato dalle mule triestine per i suoi occhi di velluto, dotati di irresistibile
languore. Pensatelo sradicato, spaesato, rifugiato a Trieste, questo avvenente ventenne che si è lasciato
alle spalle la sua Istria tanto amata, dovuta abbandonare quando la sua adorata
penisola istriana è passata sotto
l’amministrazione jugoslava.
Era
nato nel 1935 da una famiglia della piccola borghesia a Giurizzani (Juricani in
croata) dove i suoi genitori erano proprietari di piccoli appezzamenti di
terreno. Precocemente dotato di senso artistico e di predisposizione alla
scrittura – conseguita la maturità artistica a Capodistria – passò
temporaneamente a Belgrado e a Lubiana, occupandosi di teatro e di cinema. Qui,
infatti, girò come aiuto regista un film che venne presentato al festival di Venezia.
Ma
noi prendiamo a immaginarlo poco più che ventenne, ventenne, negli anni triestini, ricongiunto
alla madre, dopo la tragica morte del padre – sospettato dai soldati titini di
ribellione al regime. Proprio in questi anni conosce la giovane, poco meno che
coetanea Laura Levi, una signorina di buona famiglia, con cui intreccerà una
delicata storia d’amore e che diventerà presto sua moglie.
Ventiduenne,
nel 1957 vinse il suo primo riconoscimento importante al “Cinque Bettole” di
Bordighera con tre racconti (in commissione: Giancarlo Vigorelli, Carlo Bo,
Bonaventura Tecchi, Carlo Batocchi e Italo Calvino). Quegli stessi racconti
d’esordio, erano stati molto lodati dal futuro suocero (quel mulo el ga ciaf[1] !)
La
famiglia di Laura avrà grande importanza nella vita e nella formazione di
Fulvio, molto pieno di ammirazione per l’estro artistico del suocero, musicista
di valore, docente di storia della musica all’Università di Trieste.
La
nostalgia per la sua terra lo spingerà a scrivere nel 1960 il suo primo romanzo
di grande successo Materada in cui narra la storia di una famiglia che –
al consolidarsi del regime comunista -
la scia tutto dietro le sue spalle e parte. Si ipotizza autobiografica,
almeno in parte, questa sua opera prima,
risveglierà l’interesse della critica letteraria non solo nazionale, piena di
ammirazione per il valore epico del racconto di un popolo diviso alla ricerca
di una nuova identità. Sarà Francesco, istriano di Materada, qui nom de plume, forse del nostro Fulvio, a
decidere di abbandonare il suo paese,
strappando le radici che lo legano a una terra aspra seppure fertile che ora
gli è negata e contesa. Con i nuovi trattati del 1954 la zona B dell’Istria, in cui Materada è inclusa – viene assegnata
definitivamente alla Jugoslavia, anche
se è permesso scegliere se restare o emigrare verso Trieste. In questo
lacerante scenario storico il venticinquenne autore racconta le
sorti di un popolo disorientato e straziato da rancori, odi e vendette
sanguinose, registrando che in Istria – dopo un repressivo fascismo –
subentrava un radicale comunismo.
Materada, 1961, Mondadori, pp.175,lire 1.000
Nel 1969
Tomizza guadagna il Viareggio il primo premio di grosso spessore con L’albero dei sogni (personaggio principale è ancora il padre che è stato
per lo scrittore una autorità alla quale aveva forse trasgredito. Quindi, per
ovviare ai sensi di colpa – tema ricorrente nella scrittura tomizziana,
formatasi alla scuola dell’amato Dostoevskij – lo scrittore si autoanalizza. Il
racconto poggia su uno sfondo autobiografico di un autore che sente di scrivere
non solo per vocazione, ma anche “per una
piccola missione”.
1977 Questo è l’anno del
capolavoro di Tomizza
La
miglior vita, “epica della frontiera”, meritatissimo Premio
Strega. Romanzo corale, cronaca
attraverso gli anni, di un villaggio istriano di confine, Radovani, narrata dal
sacrestano Martin Crusich che ha servito messa a sette suoi parroci. Il romanzo
abbraccia uno spazio ampio, comprensivo di tutto il ‘900, in una terra mista di
stirpi, dominazioni e religioni, ovvero due grandi guerre, mutamenti di
nazionalità, esodi volontari o forzati, molte morti, una rivoluzione socialista,
un’epidemia di vaiolo, un terremoto.”Continuavamo a trovarci in piena guerra per
l’eterna questione dell’essere italiani e dell’essere slavi, quando in realtà
non eravamo che bastardi – dirà il sacrestano, interpretando il
pensiero dell’autore. Memorabili alcuni dei sette parroci: Don Stipe, il
cappellano biondo che sogna invano una riscossa, anche religiosa, dei popoli
slavi e incoraggia le nozze di Martin con Palmira. C’è il prete vessato dalla
sua perpetua e quello che la vessa, il sessuofobo e – infine – don Miro che è
stato partigiano con Tito, straziato da un amore pericoloso con una maestrina
del villaggio, per non arrendersi, si
distrugge di vino e di cancro. Con la sua morte, Radovani, in regime
socialista, non avrà più parroci. Nella deserta canonica alloggerà Martin,
divenuto guardiano dei ricordi. Un modesto nonzolo[2]
è dunque in grado di ricreare il passato, di rispecchiare il presente, di
additare il futuro. Tomizza gli ha assegnato il
compito di fare storia con la cronaca, di estrarre la cronaca dalla
storia, visualizzando la politica dei regimi, dei fascisti, dei
partigiani, del mondo ricco e povero,
dei fedeli, degli agnostici, dei giovani e dei vecchi
La
miglior vita, 1996, Oscar Mondadori, pp.310, Lire 13.000
Nel 1984 esce Il male viene dal Nord con radici nel passato della
Controriforma. Il capodistriano Paolo
Vergerio il Giovane si sposta verso il Protestantesimo.
1986.
Nel romanzo Gli
sposi di via Rossetti l’autore ricorre
ad una corrispondenza privata per narrarci di due giovani sloveni – residenti a Trieste –
terminata in tragedia con la loro morte.
Siamo nel 1944.. Trieste è chiusa nella morsa dell’occupazione tedesca e
nel contempo percorsa dalla diffidenza e dall’odio che oppongono l maggioranza
italiana alla minoranza slovena. Tomizza ritrova un gruppo di lettere d’amore
scritte da Stanko Vuk – incarcerato per cospirazione antifascista - alla moglie Dani, i due sposi assassinati. L’autore s’interroga quindi sulla qualità di quel
sentimento d’amore.
Questo è un
romanzo a cui sono particolarmente affezionata perché ha segnato l’inizio della
mia fraterna amicizia con l’autore con cui – da quell’anno, fino alla sua morte
– ho intrattenuto anche una fitta corrispondenza. Con il suo arrivo a Badia – il 30 marzo 1987
– mi è stato affidato il compito dalla biblioteca – di fargli da chaperonne
– conducendolo a visitare i monumenti della nostra piccola città. Lunghe ore di
dialogo umano e letterario hanno lasciato un segno profondo nei miei ricordi.
Gli
sposi di Via Rossetti, 1986, Mondadori, pp.197, lire 18.000
I
rapporti colpevoli, uscito
nel 1992
, regalerà un cemento tutto speciale alla
storia della nostra amicizia perché venerdì 12 marzo 1993, l’autore lo presenterà in Accademia dei Concordi a
Rovigo in “tandem” col mio romanzo Hena. Secondo
Zanzotto ci troviamo davanti “le pagine
più belle e rivelatrici di tutta
la sua opera”. Questo è un romanzo più che mai psicoanalitico, di
autopunizione in cui passato , presente e futuro si coagulano in un unicum di rara suggestione. Un vero
cocktail di dostoevskijani sensi di colpa. Siamo di fronte a una kafkiana
chiamata in giudizio. Sfilano davanti ai nostri occhi varie città. Surreale,
onirico e salvifico, poiché da questa scrittura l’autore si è sentito
purificato.
Due enunciati
capitali per penetrare nell'assunto del romanzo. Malattia e disubbidienza,
dunque. Ma disubbidienza a che cosa, nei confronti di chi? A un valore sociale,
morale e cattolico, innanzitutto, per cui la vita umana oltre che intoccabile è
sacra Una convenzione tutto sommato abbastanza banale, che la pone a livello di
quelli che antropologicamente (Malinowski) sono i bisogni o imperativi primari
(la mera sopravvivenza); la crisi dell'autore-protagonista (il libro è scritto
in prima persona) subentra invece dalla frustrazione dei bisogni o imperativi derivati, cioè i bisogni di libertà e di
autorealizzazione.
Sono le donne della sua vita, la madre, la moglie, la
figlia, che, in una fase precisa - di cui diremo -, ognuna in modo diverso, più
o meno consapevolmente, limitano quei bisogni o ne impediscono la
gratificazione. Donne che egli ama e verso le quali sente di avere dei doveri,
cui adesso {la cinquantina, età dell'andropausa e di bilanci punto o poco
rassicuranti) vorrebbe "disubbidire". Ma slacciarsene significa
provare sensi di colpa e rimorsi, che bisogna far ricadere sulle donne col suo
suicidio, per far sentire colpevoli loro e punirle cosi delle sue mancate
gratificazioni. un suicidio, quindi, come mancanza di gratificazioni.
Ma, come accennavamo, sintomatica e pregiudiziale è la
fase della vita in cui l'io narrante si trova, vita all'improvviso invasa dallo
spauracchio dell'invecchiamento e della caducità fisica, della perdita del
vigore giovanile, della paura della morte e/o della malattia organica
debilitante e umiliante (ecco allora il suicidio come fuga da
quell'insopportabile angoscia). Su questo versante il romanzo è
ineluttabilmente, irrimediabilmente e archetipicamente (ma anche deliziosamente)
di segno maschile. un maschio in crisi viene sezionato da Tomizza con un
bisturi crudele e (auto) ironico contemporaneamente, cui non sfugge nulla dei
suoi tic e nevrosi, feticci e velleità, "rapporti colpevoli".
l'egoismo (la liceità delle infedeltà coniugali), l'autocommiserazione e il
vittimismo, la viltà e la crudeltà (alla compagna della vita il maschio non
perdona di invecchiare pure lei) , il masochismo (la fedeltà e le virtù della
moglie enfatizzano le colpe del marito...), l'autismo affettivo (il
crogiolamento escludente e inconcludente nel dolore di sè). Anche qui però c'è
un riscatto dalla banalità, perché la crisi è pure più profondamente
esistenziale (il "male di vivere" montaliano, la rassegnazione e
l'inerzia dell'Emilio sveviano), vieppiù esacerbata dalla condizione di eterno
"deracine",di sradicato, di inguaribile"foresto" dilaniato
fra un'ltalia "estranea e incomprensibile" e un'Istria di
"luoghi bastardi". Ed è solo dell'Istria, d'altronde - "questo
mio ultimo villaggio dove sto cercando di sciogliere i miei nodi con carta e
penna" - il paesaggio della memoria e dell'identità, nevrotizzante
non-scelta, ambigua e dolorosa, che ha bisogno di continue giustificazioni e
razionalizzazioni.. Tutti gli altri luoghi del romanzo o non esistono o hanno
l'anonimità di stanze d'albergo, di appartamenti soffocanti, di locali pubblici
qualsiasi.
Un romanzo di archetipi. Di due, il maschio in crisi e
il "deracine", abbiamo appena detto Ma ce n'è un terzo, che ci sembra
abbastanza nuovo nel panorama letterario italiano, ed è il tipo di donna
istriana del contado, identificabile nella nonna e nella madre del narratore.
Donne povere e aride come il carso da cui provengono, già fanciulle tirate su
più a rimbrotti che a carezze, da genitori dispensatori più di parsimonia che
di tenerezza. .Donne in continua competizione con gli altri e in primo luogo
con gli uomini, volitive e forti fino alla grettezza e alla millanteria
(l'autore attribuisce a loro le sue odiatissime ma insopprimibili meschinità), commedianti
incallite, lacrimose a comando, pietose con se stesse, draconiane con tutti gli
altri. Mogli e madri diligenti, ma insensibili, che lesinano su tutto, anche
sulle manifestazioni d'affetto...
E’ romanzo di artifici. Nel primo ci si imbatte subito
all'inizio, ed è quello già manzoniano (e altrui) del ritrovamento del
manoscritto (qui è il fratello del suicida a trovare gli appunti). Artificio
poi dell'abile gioco letterario in cui l'autore, smontando la tradizionale
struttura del romanzo, man mano che si avvicina all'esito finale, lo frantuma
in spezzoni sempre più brevi e schizoidi; artificio, anche, del seducente
equivoco per cui vero e pseudo-autobiografismo, realtà fattuale e onirica,
fantasia e incubo, vaneggiamento e lucidità, flusso di coscienza e presa
diretta si rincorrono, si sovrappongono, si aggrovigliano. La disarmante
sincerità di autoanalisi, la puntigliosa descrizione di particolari anche
scabrosi, i giudizi perentori come schiaffi, i sentimenti riprovevoli (il
desiderio di matricidio...), continuamente irretiscono il lettore, lo
sconcertano tenendolo in bilico tra finzione e realtà, senza mai lasciargli
discernere con certezza dove l'una finisca e incominci l'altra, ma anche senza
mai fargli dubitare del!'autenticità del sentire. Un libro che non si può
lasciare a metà, perché ci si sente avvinghiati dall'iridata regnatela di un
percorso umano e storico con cui ognuno ha qualcosa da spartire. dubbi,
incertezze, scoramenti, miserie. Un romanzo avvolgente: per l'autore un modo, a
quanto pare efficace, di rintuzzare la depressione, per i lettori una delle
opere migliori di Tomizza.
Proprio in
occasione di una delle sue tante visite badiesi, Fulvio seduto nel nostro
soggiorno con Laura – la micia Jackie accoccolata sulle sue ginocchia, - ci
aveva raccontato in anteprima la trama de L’abate Roys. Uscito nel 1994 per i
tipi di Bompiani.
Ricorrerà ancora a
una corrispondenza privata per scrivere Franziska (1997), ispirato all’omonima
slovena e all’italiano Nino che comunicano per lettera consolidando un amore poi ostacolato dalle loro origini,
dalle tradizioni e dai confini.
Per la rivista
fiorentina II Portolano ho recensito nel 1997 il volume che
Fulvio mi ha fatto avere prontamente.
Recensione. Franziska di Fulvio Tomizza,
Mondadori
E' fuor di dubbio che quando Tomizza - istriano di nascita
e triestino d'adozione -, intinge la penna nei suoi temi di frontiera per
narrare vicende di minoranze etniche che gli stanno fortemente a cuore, la sua
vena di scrittore ritrova tutto lo smalto dei bei tempi, di quando con romanzi
di elevato spessore quali L'albero dei sogni o La miglior vita,
riceveva i premi Strega e Viareggio.
Con Franziska, sua ultima figlia letteraria, uscita per i tipi della Mondadori, lo scrittore ci offre uno struggente e delizioso ritratto di donna, ricostruito e immaginato sulle basi di un epistolario originale. Possiamo constatare come la Storia corra parallela alla vicenda privata della slovena del Carso e ci rendiamo conto, sollecitati dalla penna dell'autore, di quanto appaia ai nostri occhi maggiormente accattivante e letterariamente valida la vicenda privata dell'infelice protagonista, piuttosto che l'inevitabile cornice storica reale che fa da fondale alla narrazione.
La nascita eccezionale (con Francesco Giuseppe per padrino e la concessione in dono di mille corone, avendo visto la luce nelle prime ore del secolo ventesimo), la vita tribolata della figlia del falegname Skripac, il suo unico grande amore deluso, offrono un vigoroso pretesto a Tomizza per scandagliare con cuore sensibile l'animo femminile sul filo delle inesplicabili incongruenze della vita.
Ritorna a galla il clima, l'atmosfera in cui lo scrittore è vissuto ed è stato educato; dalla pagina emergono i suoi convincimenti politico-storici, la sua personale visione della vita. Appare nella pagina a linee maiuscole tutta la crudeltà del Novecento nei confronti della Slovenia - patria di Franziska -, un'etnia travagliata che solo da due anni è riuscita ad avere uno Stato. La protagonista è toccata dalle due guerre e dalla persecuzione fascista, ma noi, in quanto lettori, pur consapevoli della necessità ineluttabile di un back-ground storico, siamo soprattutto attratti dalla parte umana e sentimentale del romanzo, dall'amore che intercorre tra la giovane e il maturo (solo negli anni, purtroppo) Nino Ferrari, l'italiano di Cremona, ufficiale sul Carso e poi ingegnere a Trieste, resi emotivamente partecipi di un sentimento che si snoda difficoltoso per gli impacci di due anime e di due culture, di due mondi che, sfiorandosi, annaspano per capirsi. L'anno fatale dell'incontro è il 1918, la storia ha un andamento positivo fino al 1921, poi - con l'affermarsi del fascismo - l'incendio della casa del popolo, tutte le oppressioni storiche coincidono con i tentennamenti dell' intiepidito innamorato, un uomo amletico, indeciso, molto più borghese di quanto egli stesso pensi di essere. Nino Ferrari, esteriormente è colto, un po' fuori dalla norma, dotato di un'intelligenza sui generis, severo giudice di quella grettezza provinciale di cui in realtà è succube, e l'ultima crudele lettera alla sua sventurata donna rivela tutto il suo gelido egoismo. A Franziska crolla il mondo addosso. I passaggi psicologici che ci descrivono il dolore, la delusione, la caduta intima della protagonista, sono di raro vigore introspettivo.
Quello della giovane slovena è uno dei più bei ritratti femminili dell' attuale letteratura, dipinto con mano delicata, attenta alle sfumature, a quei sussulti del cuore che solo un grande scrittore sa cogliere e sublimare.
Con Franziska, sua ultima figlia letteraria, uscita per i tipi della Mondadori, lo scrittore ci offre uno struggente e delizioso ritratto di donna, ricostruito e immaginato sulle basi di un epistolario originale. Possiamo constatare come la Storia corra parallela alla vicenda privata della slovena del Carso e ci rendiamo conto, sollecitati dalla penna dell'autore, di quanto appaia ai nostri occhi maggiormente accattivante e letterariamente valida la vicenda privata dell'infelice protagonista, piuttosto che l'inevitabile cornice storica reale che fa da fondale alla narrazione.
La nascita eccezionale (con Francesco Giuseppe per padrino e la concessione in dono di mille corone, avendo visto la luce nelle prime ore del secolo ventesimo), la vita tribolata della figlia del falegname Skripac, il suo unico grande amore deluso, offrono un vigoroso pretesto a Tomizza per scandagliare con cuore sensibile l'animo femminile sul filo delle inesplicabili incongruenze della vita.
Ritorna a galla il clima, l'atmosfera in cui lo scrittore è vissuto ed è stato educato; dalla pagina emergono i suoi convincimenti politico-storici, la sua personale visione della vita. Appare nella pagina a linee maiuscole tutta la crudeltà del Novecento nei confronti della Slovenia - patria di Franziska -, un'etnia travagliata che solo da due anni è riuscita ad avere uno Stato. La protagonista è toccata dalle due guerre e dalla persecuzione fascista, ma noi, in quanto lettori, pur consapevoli della necessità ineluttabile di un back-ground storico, siamo soprattutto attratti dalla parte umana e sentimentale del romanzo, dall'amore che intercorre tra la giovane e il maturo (solo negli anni, purtroppo) Nino Ferrari, l'italiano di Cremona, ufficiale sul Carso e poi ingegnere a Trieste, resi emotivamente partecipi di un sentimento che si snoda difficoltoso per gli impacci di due anime e di due culture, di due mondi che, sfiorandosi, annaspano per capirsi. L'anno fatale dell'incontro è il 1918, la storia ha un andamento positivo fino al 1921, poi - con l'affermarsi del fascismo - l'incendio della casa del popolo, tutte le oppressioni storiche coincidono con i tentennamenti dell' intiepidito innamorato, un uomo amletico, indeciso, molto più borghese di quanto egli stesso pensi di essere. Nino Ferrari, esteriormente è colto, un po' fuori dalla norma, dotato di un'intelligenza sui generis, severo giudice di quella grettezza provinciale di cui in realtà è succube, e l'ultima crudele lettera alla sua sventurata donna rivela tutto il suo gelido egoismo. A Franziska crolla il mondo addosso. I passaggi psicologici che ci descrivono il dolore, la delusione, la caduta intima della protagonista, sono di raro vigore introspettivo.
Quello della giovane slovena è uno dei più bei ritratti femminili dell' attuale letteratura, dipinto con mano delicata, attenta alle sfumature, a quei sussulti del cuore che solo un grande scrittore sa cogliere e sublimare.
Franziska,
1997, Mondadori, pp.225, lire 27.000