domenica 27 novembre 2011

Foresta di simboli

FORESTA DI SIMBOLI I pittori simbolisti italiani a confronto con i maestri Klimt e von Stuck
Ci è apparso un avvenimento di rara eccezione riuscire a concentrare in una mostra d’arte un vasto ventaglio di stati d’animo, quasi soprassalti del cuore. Eppure, chi percorre le otto sezioni tematiche dell’esposizione patavina Il Simbolismo in Italia, visibile dal 1 ottobre 2011 al 12 febbraio 2012, non può sottrarsi al clima che i curatori Fernando Mazzocca, Carlo Sisi con Maria Vittoria Marini Clarelli, hanno saputo evocare, soprattutto nelle ultime sezioni, dove poeti come Baudelaire e Rimbaud, insieme al nostro D’Annunzio, si sarebbero sentiti di casa, perfettamente inseriti in spazi consonanti con la loro visione di arte incontaminata dalle problematiche sociali, dove la realtà apparente, quella percepibile con i sensi, nasconde una realtà più profonda e misteriosa, improntata ai grandi valori dell’umanità, quali: il senso della vita, la morte, il sogno, il mito, il mistero, l’enigma, valori che il tecnicismo minacciava di distruggere.
Altro grande merito della mostra, è quello di essere veramente la prima che ha volto lo sguardo al Simbolismo in Italia nella sua totalità. Sappiamo bene che non è possibile dividere le correnti artistiche in compartimenti a sé stanti, quindi il “trittico” poesia, musica e arti figurative sembra ispirato di pari passo dagli stessi temi di farsi avulso dalla realtà, volto ad una morbida e dissimulata sensualità che sembra cogliere le remote radici dell’essere. Se Parigi gode il primato della prima mostra di Nabis, nel 1891, Milano risponde pronta con la prima Triennale di Brera, prefiggendosi, fra l’altro, di dare luce alle nuove esperienze “antiaccademiche”. Si sa che le novità possono creare dissensi (Picasso docet) oltre a perplessità e scandalizzati pensieri, quindi, ammirando nella mostra padovana, la Maternità di Gaetano Previati, così onirica e volutamente sfatta, non stentiamo a credere alla querelle che avrà scatenato nell’esposizione milanese, soprattutto perché contrapposta alla versione più realistica, proposta da Le due madri di Giovanni Segantini. Va da sé che il fruitore d’oggi si senta più vicino ad una voce innovativa, scevra da nostalgie veriste. Gli autoritratti della prima sezione sono tutti degni d’interesse, ma ci siamo soffermati con particolare interesse su quello del Previati stesso, incuriositi anche dal polverone che aveva saputo sollevare. Una delle opere – a nostro giudizio – più impressionanti e quindi capace di creare l’inquietudine tipica del miglior simbolismo, è l’opera di Mario de Maria, Luna. Tavole di un’osteria ai Prati di Castello, per la presenza/assenza dell’omicidio consumato, misteriosa per le circostanze soltanto alluse: si capisce che lì è stato sparso del sangue, ma non si vedono cadaveri e la luce lunatica accende morbose fantasie.
Uniformandoci a quanto scrisse in proposito Henry-Frédéric Amiel, va sottolineato come in questa esposizione, il paesaggio sia più che mai ‹‹uno stato dell’anima››, ovvero un sentimento panico della natura dove primeggia il fascino baluginante delle nebbie, dei bagliori lunari, in diretta simpatia con la psicologia ipersensibile degli intellettuali fin de siècle. Staffetta di questo tema è appunto l’Isola dei morti di Böcklin nella versione di Otto Vermehren, sottolineando anche l’angoscia di Pelizza da Volpedo, mascherata con teschi, edera e violette. Così la natura si fa velato e disvelato specchio degli artistici rovelli interiori.
La donna è poliforme: sfinge (Bistolfi), sirena (Sartorio), Cleopatra (Previati), per raggiungere l’acme insuperato nei due grandi del Simbolismo tedesco, esposti anche in Biennali veneziane che brillano nelle sale ultime dello Zabarella con Il Peccato di Franz von Stuck e la Giuditta di Gustav Klimt, a noi apparsa come il capolavoro dei capolavori, dotata persino di una capacità medianica di creare un transfert tra se stessa e il fruitore. Sembra che non siamo noi ad ammirarla, ma lei a guardarci, seduttiva e minacciosa, ambigua e stregonesca femme fatale, dalle mani artigliate, sovraccarica di gioielli. Difficile non identificarla con Alma Malher che ammaliò – se ci passate l’ossimoro – in contemporanea successione, artisti quali Malher, Gropius, Kokoscha e Werfel, lasciando il cuore di Klimt velenosamente infranto.
Grazia Giordani
PUBBLICATO VENERDì 28 OTTOBRE IN ARENA, GIORNALE DI VICENZA E BRESCIAOGGI
Grazia Giordani

Sognando un'attesa

L’ATTESA (titolo provvisorio)
Mi comportai come quello che esce di casa dicendo: "Vado a comprare le sigarette!” e poi per tutta la vita non si fa più vivo.  Non ne potevo più di quella noiosa riunione tra colleghi del giornale a discutere del sesso degli angeli. Un bla bla senza senso, improduttivo, mentre ci trovavamo in una delle città più raffinate del mondo, dove un tempo avevo lasciato un piccololo lembo di me stessa che, ciclicamente, riaffiorava. Ricordate la proustiana madeleine? Basta un nulla, lo sguardo ironico di un uomo qualsiasi per la strada, un luogo che somigli ad altri visitati insieme o ancor più che si sarebbero voluti visitare. Una risma di carta sottile, esposta in vetrina, simile a quei veli fittamente scritti che ricevevo da lui nei miei anni poco più che adolescenziali. Basta una c aspirata da un ignaro passante, a far ruscellare un profluvio di ricordi veri o immaginati, perché la memoria gioca sorniona dentro il nostro cuore, regalandoci  una riserva di momenti  salvifici cui pensare, quando la vita ci delude e tutto ci sembra perduto.
Presi la direzione del Giardino di Boboli per meglio cullare i ricordi. Non fu una scelta a caso, perché nel corso di una sua ultima telefonata – appariva e scompariva come una fatamorgana – mi aveva detto che il suo balcone si affacciava proprio su quel giardino dei nostri giovanili incontri.
Cosa speravo? Di vederlo affacciato in shakespeariano flash surreale?
No. Sapevo che l’avrei visto solo nello sguardo di altri uomini o meglio in quello che avevo interiorizzato, un’occhiata lunga, come il passato che non si distrugge, quell’insidioso paese straniero, folto di vicoli e strade maestre che s’intersecano all’infinito. Dicono che Mozart sentisse le sue opere in fieri dall’inizio alla fine. Ecco, in quel momento, anch’io sentivo la mia vita come se l’avessi vissuta realmente con lui. Come se in quell’innocente passeggiata nello storico giardino, le nostre mani non si fossero limitate a sfiorarsi appena. Quante cose possono dirsi le mani! Quanto desiderio può bruciare palmi e pensieri, muta la bocca, elusivi gli sguardi  . . . Eppure, sebbene affogata dentro queste fantasticherie, ogni tanto volgevo gli occhi verso quello che pensavo potesse essere il suo balcone non so se più ansiosa o timorosa di rivederlo.
Così trascorse la mattinata. Cosa avranno pensato di me i colleghi? Presto sarebbero dovuti tornare a Verona. Poco male, me la sarei cavata con una telefonata di scuse.
Le corolle dei fiori, intorno a me, ubriache di sole, pareva volessero contagiarmi verso la strada della follia.
E se gli telefonassi?
Basta una guida telefonica per trovare i numeri.
A casa no.
Severamente proibito.
Nel suo studio?
Che dire al centralinista?
Mio dio, no.
Il mio destino è quello di restare la gozzaniana “rosa che non colsi”.
Uscita dal mitico giardino, trapunto di ricordi, mi avviai verso un anonimo caffè poco lontano. Accomodata in un tavolino in ombra, desiderosa di restare in compagnia dei miei ricordi, credetti di vedere un uomo di media statura, più magro del Franco di allora. Un po’ di neve era caduta sui suoi non folti capelli, ma la mamo protesa verso la tazza, aveva la stessa sinuosa maniera di porgere. Un’ondata di piacere m‘invase tutta. Non volevo sapere, non volevo soffrire, quando . . .

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Raramente sedevo ai tavolini dei caffè: ci volevano motivi davvero particolari, incontri intellettuali, pause motivate. Eppure, in quella tarda mattina, stava accadendo qualcosa. Si scioglievano ricordi, inseguivo figure, ricordavo quel profilo dolce, assai femminile, sensuale nello sguardo. E mentre in quella piazza affollata di turisti, venuti a curiosare nella reggia dei granduchi, Marco mi lasciava per avviarsi alla sua libreria antiquaria, mi veniva spontaneo scrutinare quelle signore ancor giovani, gagliarde nei loro passi, garanti ancora di sicuri collaudati piaceri. Ma sbagliavo. Non era signora “da gruppo” quella che fu la mia Ginevra: troppo riservata, troppo colta, troppo individualista nel porsi. Mi girai dunque altrove. Un altrove profondo , che guardava attraverso via Guicciardini, verso il Ponte Vecchio. Un'asta stradale che allora era ancora percorribile sognando, con le mani o con le braccia intrecciate e oggi ormai insopportabile, espropriata ai sentimenti.
Guardavo ma nulla tornava verso di me. Nessun segnale, nessuna immagine. Eppure continuavo a sentire che qualcosa stava per accadere...
Ma il tempo passava, sopraggiunse la rarefazione del primo pomeriggio, poi la passerella umana riprese il suo ritmo. Ginevra non c'era. O forse non l'avevo riconosciuta: ma no, non era possibile. Semplicemente l'avevo immaginata ma ero fuori da ogni realtà. Ed allora tornai indietro nel tempo – una macchina assurda questa del tempo ! -  alla passeggiata per Boboli fino al Kaffehaus, quel curioso edificio lorenese che ricorda le edicole di Vienna e di Praga; un tempo dolce ove io promisi e non mantenni, un tempo che ci avvolgeva proiettandoci altrove. Ma era ancora una stagione in cui i doveri sovrastavano i piaceri e i desideri. Ma sbagliavamo.

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 No, non era sua quella bella mano dalle lunghe dita che aveva lasciato ricami di carezze sul mio corpo e nei miei pensieri. E poi sapevo che non era un habitué di locali pubblici. Preferiva lunghe passeggiate, mano nella mano, raccontandomi della sua Firenze, dei gioielli d’arte della sua città, nei nostri troppo brevi incontri. Eppure, avvertivo come un pulviscolo nell’aria, un alitare di polline di fiori, un preannuncio indefinibile.
Ormai i colleghi avevano fatto ritorno a Verona, chiedendosi: “Cosa avrà trattenuto a Firenze quell’enigmatica donna e quale bugia racconterà a casa?”
Ma non me ne importava, stavo concedendomi un flash di vacanza, uno scampolo di vita, camminando su una via selciata di nostalgie. I sampietrini del passato balzavano fuori dalla mia fantasia, invitanti e provocatori. Come se ce ne fosse bisogno! A volte inganniamo noi stessi con inutili elucubrazioni.
Ponte Vecchio mi guardava con occhio sornione, pareva volesse invitarmi a valicarlo ancora una volta, magari per soffermarmi ad ammirare le sue vetrine, ancor più per perdermi dentro la forza ipnotica dell’Arno che scorre.
Dopo l’illusione della mano sinuosa al caffè, mi apparvero le sue spalle. Focalizzai quel particolare, legato al suo modo di incedere. Quando lo accoglievo, alla stazione di Bologna, aveva un suo modo timido ed amorevole di curvarsi verso di me, attendendo il mio primo abbraccio. Era un momento magico che vorrei cristallizzare qui nella pagina, proprio mentre lo sto scrivendo.
Dunque, era lui?
Come nei romanzi dal contorto costrutto, quelli in cui la casualità può farsi causalità (ricordate Il ponte di Saint Louis Rey?) la realtà mi avvolse nel suo serico mantello. La letteratura si faceva sempre più specchio della vita.
Si girò al ralenti, come in una scena da film.
Non ci eravamo mai lasciati.


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Il sole, in quel momento, veniva da San Miniato al Monte e proiettava le ombre verso l'angolo del lungarno Acciaioli , così i palazzi  della riva destra erano intensamente illuminati, quasi abbaglianti, tagliando nettamente le figure che popolavano quello storico crocevia. Finalmente, eccola ! Smagliante come sempre,   figura che non sfuggiva agli astanti . Fu come riguadagnare vent'anni di colpo: ci sorridemmo , affidando, intanto, a quel sorriso tutte le cose passate presenti e future. Un sorriso è capace di tanta sintesi. E subito ci avviammo verso palazzo Corsini , aperto per la settimana della Biennale dell'Antiquariato. Camminammo per il marciapiede , ma prima di entrare in palazzo volle rivedere   l'Arno dall'angolo di ponte Santa Trinita. Le dissi, con un po' di civetteria – peraltro sempre perdonata – del mio ultimo restauro a quel ponte , poi guardammo verso Ponte Vecchio , scrutinando gli edifici  e l'abside in aggetto sul fiume della chiesa di san Jacopo Oltrarno.
Sentivo in lei  tanta della mia vita non realizzata,   sentimenti intimamente conservati,   eventi lasciati in attesa : quasi una vita contigua non avuta. Il percorso fra i box dei tanti antiquari  - da quelli di Londra a quelli di Parigi, dai romani ai fiorentini – fu occasione per misurare le nostre conoscenze in arte; e Ginevra ne uscì soccombente, solo per poco. Le sue ininterrotte attenzioni e presentazioni per gli artisti contemporanei – soprattutto veneti - le avevano consentito aggiornamenti davvero avvertibili.
La discussione, anzi il confronto più vivace fu davanti  ad alcune vedute del Canal Grande del Guardi e del Canaletto. Divergenze sulla luce nei due grandi artisti, confronto con le vedute dell'Arno e di piazza Signoria (di Budapest).
L'Harris Bar, ancora sul lungarno, dopo piazza Goldoni , ci consentì finalmente di sedere. Mi fermai sul  suo sguardo dolce e allusivo, il suo seno dolce e generoso, la sua garbata gestualità. Era ancora lei. Più matura, più bella, ancor più desiderabile. Nel sederci ci sfiorammo involontariamente sotto il tavolino, poi invece di proposito, indovinando qualcosa che non avevamo mai avuto.

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Temevo di svegliarmi come accade nei sogni più belli, quelli che si sciolgono all’alba. La sintonia nell’avvertire in entrambi “tanta della nostra vita non realizzata” si traduceva in addolorata gioia, divenendo un amletico languore.
Se Amleto avesse sposato Ofelia, avrebbero potuto vivere veramente felici, o la noia sarebbe infine sopraggiunta a banalizzare il loro sentimento?
Mi perdevo, al solito, in queste divagazioni letterarie, perché ero spaventata dall’ondata di calore che m’invadeva al contatto, prima fortuito e poi voluto da entrambi, che si era creato tra le nostre ginocchia sotto il tavolino.
Feci una cosa ardita che non mi somigliava per nulla, che se avessi vista compiere da altri mi sarebbe parsa addirittura oscena. Mi sfilai un mocassino, un’innocente calzatura che, docile, mi aveva condotta con lui all’Harris Bar, dopo aver goduto delle sue colte divagazioni artistiche.
Non mi riconoscevo più, non ero più io, la schizzinosa signora che nella vita non avrebbe mai voluto compiere banalità. Il mio piedino nudo prese a scorrere lungo la sua gamba fremente. Riprovai lo stesso squassante piacere che mi coglieva sola nel letto di casa, quando la notte ripensavo ai nostri candidi incontri di giovinezza.
Con uno strano sdoppiamento, ero lì, eccitata al suo fianco, e nel contempo mi rivedevo seduta con lui in una sala cinematografica bolognese, mentre guardavamo Quel pasticciaccio brutto di via Merulana, le mani strettamente congiunte, soffocati dal desiderio represso.
Che spreco di piacere era stato il nostro!
Ma che fosse rimasto intatto, proprio perché non l’avevamo consumato?
A cosa ci avrebbe portato questo tardivo recupero?
A un dolore ancora più cocente, nel doverci poi separare?
Mai avremmo voluto arrecare danno alle reciproche famiglie.
Questo era un flash solo nostro, mi dicevo per giustificarmi.
E il piacere si stava mutando in un fiore di luce che spalancava la corolla dentro il mio ventre, mentre non osavo pensare cosa stesse accadendo a lui.
Dunque, anche gli intellettuali, quelli che hanno sempre pensato di cibarsi di arte musica e letteratura, possono sentire così ardente l’urlo della carne?
Anche in età matura?
Questa per me era un’incredibile scoperta.


                                               *
Il taxi arrivò rapidamente “Roma 22 , tre minuti”. Già nel salire verso quel primo piano , seguendola, le accarezzavo i fianchi. Poco prima di aprire  la porta d'ingresso la girai verso di me, l'accarezzai, le detti un bacio sulla tempia, un lungo bacio sui capelli. Entrammo.
Fu lei per prima a togliersi il soprabito, apparendo così con un golf  color panna che accompagnava assai bene il colore dei suoi capelli. La invitai a sedere sul divano di pelle disegnato dalla Gae per Poltonova , così fu ancora lei a precedermi e stendersi con le sue spalle su di me. L'abbracciavo e  le carezzavo i seni sentendone turgide quelle piccole estremità. Un momento tanto atteso, desiderato, immaginato e finalmente, realizzato. Seguì una pausa . Una pausa che riassumeva un tempo indefinito, indefinibile. Ginevra era ancora carica di passione, di curiosità, di grazia: il suo corpo, tutto il suo corpo era ancora vigoroso , ostentava sicurezza, era forse più esperiente e appetibile di quello dei suoi anni giovanili. Sul mio viso sentivo i suoi capelli . L'abbracciai stretta quasi a soffocarla – mi disse - , poi fu ancora lei per prima a girarsi e sedersi con le gambe incrociate verso di me . Ci baciammo a lungo, la baciai sugli occhi, la baciai sui seni, le accarezzai quelle puntine ora assolutamente rigide, l'accarezzai ovunque, ripercorrendo un tempo perduto. Si alzò e mi trascinò verso il letto. Rapidamente si spogliò e volle che anch'io facessi altrettanto. Così conobbi finalmente il movimento dei suoi occhi, dolcissimi, nel momento dell'amore.

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Sapevamo entrambi che questo era solo un flash di vita, una parentesi tutta nostra che non avrebbe portato a nessuna rottura familiare. Non c’era nemmeno bisogno di dirlo, era implicito. Eppure, come rinunciare del tutto? Perché non provocare qualche nuovo sporadico incontro?
Lo lasciai, piangendo, alla stazione di Firenze.
Francesco si guardava intorno, timoroso di incontrare amici.
L’incantamento sembrava finito.
Tornata a casa, ripensavo a quei momenti d’estasi come a una grazia meritata, perché lui c’era prima.
E, nella mia fantasia, non aveva mai smesso di esserci.
Qualche telefonata intercorse ancora tra noi.
Qualche mail non troppo frequente.
Entrambi sentivamo il pericolo di un legame troppo pressante.
Eravamo dei ragionevoli folli.
La primavera si era fatta ingorda di estate nella mia amatissima Spina.
Come per incanto, lo vidi camminare lungo la battigia, vestito di tutto punto, con l’aria sorridente di chi mi stava aspettando . . .
Lo invitai a salire nel mio minuscolo appartamento, quasi un ventre materno che mi protegge dalla routine della vita.
La luce violetta della sera ormai avvolgeva benigna pensieri e cose attorno a noi.
Quante volte, inquadrato dal rettangolo di quella piccola finestra avevo seguito il mutamento delle stagioni, ritmato dalle rose in boccio sul terrazzo, poi roride corolle, quindi petali sfatti, paragonandoli al film della mia vita – quello che stavo vivendo proprio adesso -, da bocciolo a fiore pieno, addirittura un po’ fané. Avete un bel dire che conta la classe, lo chic, la distinzione, ma non perdiamoci in inutili malinconie. Appoggiati al davanzale della finestra, Francesco ed io, ripensavamo all’eccitante giornata fiorentina, non famelici come allora, più misurati, pronti a centellinare il piacere come un raro liquore. L’amore, questa volta, avremmo dovuto gustarlo a sorsi brevi ed intensi. Avete mai sentito il profumo di una donna che sta per congiungersi all’uomo del suo cuore? Qualcosa di animalesco, tenero e pieno nel contempo si sprigiona da lei, una mistura di miele e pepe che illanguidisce i sensi, esaltandoli.
Lente carezze reciproche cercavano i punti sensibili dei nostri corpi.
Danzavano ardenti le lingue dentro le nostre bocche.
La rosa bruna del mio ventre, si apriva, liquida, a riceverlo fino in fondo.
“Sei piena di me” – come potrò mai dimenticare questa tua espressione?
Il terrazzo poi ci accolse, complice, le ultime stelle tra i pini, un barlume di luce riflessa nel tuo sguardo appagato.
Ma eravamo personaggi reali o la freudiana proiezione di un  troppo a lungo rinviato sogno?

Racconto a quattro mani di Ginevra & Francesco

mercoledì 23 novembre 2011

IL GATTO

Un fatto è certo che non si resti mai delusi leggendo i romanzi di Simenon. E Il Gatto (pp.165, euro10) che Adelphi ci propone ben tradotto da Marco Bevilacqua, rifulge di una sua crudele bellezza, rientrando in quel duro filone in cui l’autore descrive il fallimento della coppia e le miserie della vecchiaia. Fa da cornice all’algida vicenda l’atmosfera volutamente stagnante, entro cui i due protagonisti -  Émile Bouin, settantatré anni, ispettore dei lavori pubblici in pensione e Marguerite Doise, settantun anni -, entrambi vedovi, risposatisi otto anni prima, sono giunti a giurarsi un implacabile odio reciproco non smettendo mai di spiarsi, cercando l’uno nell’altro i segni della reciproca vecchiaia e l’approssimarsi della morte. Questa situazione dura da quando è morto l’amatissimo gatto di Émile che l’uomo sospetta sia stato avvelenato dalla moglie per vendetta, visto che non sopportava la presenza, ai suoi schizzinosi occhi, inopportuna ed ingombrante, dell’animale.
In letteratura, non è il primo esempio di un fatto simile, basterebbe riprendere in mano La Chatte di Colette – pur con le dovute differenze di clima e di scrittura – per ritrovare richiami alla penosa situazione. Ma la vendetta genera vendetta e l’esacerbato marito strappa le penne al pappagallo di Marguerite, provocandone la morte. Ora l’ara troneggia impagliata nel salotto. Da quel momento i due non si rivolgono più la parola, comunicando solo con lapidari, perfidi bigliettini. Nel timore che uno cerchi di avvelenare l’altro, si recano a fare la spesa ciascuno per conto proprio, conservano le provviste in credenze chiuse a chiave e si preparano pasti separati. L’odio è diventato un’abitudine cui non sanno rinunciare e ciascuno si adopera per trovare il modo di tormentare l’altro. Al minimalismo del linguaggio prosciugato, lontano da qualsiasi abbandono lirico, fa contrasto una costruzione narrativa tortuosa e molto elaborata, densa di flash back che ci raccontano la vita precedente di Marguerite, di estrazione sociale di gran lunga superiore a quella del marito, vedova di un raffinato musicista e l’esistenza precedente di Émile, da manovale diventato ispettore ai lavori pubblici, ora in pensione e pieno di rimpianto per Angèle, la sua prima moglie, allegra, carnale, piena di vita, in contrasto con l’esangue Marguerite  che non condividerà mai con lui i piaceri del letto.Avrebbero potuto essere due solitudini – pur nelle differenze sociali – pronte a darsi reciproco conforto. E questo, forse, era stato il proposito iniziale di entrambi – ma non ha tardato a crearsi un velenoso livore tra i coniugi che sin dall’incipit cogliamo nella loro quotidianità, soffocati dall’atmosfera asfissiante che aleggia loro intorno come una maledizione. Émile compie anche un tentativo di evasione dalla schiacciante routine, rifugiandosi tra le braccia della donativa Nelly, pronta, come in tempi passati, a offrirgli ogni genere di conforto. Ma l’esperimento fallisce, perché l’odio è diventato motivo di esistere, un sentimento vitale a cui non sanno rinunciare, perché è per entrambi l’unica maniera di esorcizzare la morte.
Come sempre, l’epilogo lo lasciamo ai lettori, aggiungendo solo la notizia che il bellissimo romanzo ha conosciuto un adattamento cinematografico nel 1971, girato da Pierre Granier-Deferre con Simone Signoret e Jean Gabin nei due ruoli principali.

Grazia Giordani