venerdì 25 ottobre 2013

Fulvio Tomizza



Fulvio Tomizza
(1935-1999)

Immaginate un ragazzo di bell’aspetto, vagheggiato dalle mule triestine per i suoi occhi di velluto, dotati di irresistibile languore. Pensatelo sradicato, spaesato, rifugiato a Trieste,  questo avvenente ventenne che si è lasciato alle spalle la sua Istria tanto amata, dovuta abbandonare quando la sua adorata penisola istriana  è passata sotto l’amministrazione jugoslava.
Era nato nel 1935 da una famiglia della piccola borghesia a Giurizzani (Juricani in croata) dove i suoi genitori erano proprietari di piccoli appezzamenti di terreno. Precocemente dotato di senso artistico e di predisposizione alla scrittura – conseguita la maturità artistica a Capodistria – passò temporaneamente a Belgrado e a Lubiana, occupandosi di teatro e di cinema. Qui, infatti, girò come aiuto regista un film  che venne presentato al festival di Venezia.
Ma noi prendiamo a immaginarlo poco più che ventenne,  ventenne, negli anni triestini, ricongiunto alla madre, dopo la tragica morte del padre – sospettato dai soldati titini di ribellione al regime. Proprio in questi anni conosce la giovane, poco meno che coetanea Laura Levi, una signorina di buona famiglia, con cui intreccerà una delicata storia d’amore e che diventerà presto sua moglie.
Ventiduenne, nel 1957 vinse il suo primo riconoscimento importante al “Cinque Bettole” di Bordighera con tre racconti (in commissione: Giancarlo Vigorelli, Carlo Bo, Bonaventura Tecchi, Carlo Batocchi e Italo Calvino). Quegli stessi racconti d’esordio, erano stati molto lodati dal futuro suocero (quel mulo el ga ciaf[1] !)
La famiglia di Laura avrà grande importanza nella vita e nella formazione di Fulvio, molto pieno di ammirazione per l’estro artistico del suocero, musicista di valore, docente di storia della musica all’Università di Trieste.
La nostalgia per la sua terra lo spingerà a scrivere nel 1960 il suo primo romanzo di grande successo Materada  in cui narra la storia di una famiglia che – al consolidarsi del regime comunista -  la scia tutto dietro le sue spalle e parte. Si ipotizza autobiografica, almeno in parte,  questa sua opera prima, risveglierà l’interesse della critica letteraria non solo nazionale, piena di ammirazione per il valore epico del racconto di un popolo diviso alla ricerca di una nuova identità. Sarà Francesco, istriano di Materada, qui nom de plume, forse del nostro Fulvio, a decidere di abbandonare  il suo paese, strappando le radici che lo legano a una terra aspra seppure fertile che ora gli è negata e contesa. Con i nuovi trattati del 1954 la zona B dell’Istria,  in cui Materada è inclusa – viene assegnata definitivamente  alla Jugoslavia, anche se è permesso scegliere se restare o emigrare verso Trieste. In questo lacerante  scenario  storico il venticinquenne autore racconta le sorti di un popolo disorientato e straziato da rancori, odi e vendette sanguinose, registrando che in Istria – dopo un repressivo fascismo – subentrava un  radicale comunismo.

Materada, 1961, Mondadori, pp.175,lire 1.000

Tre anni dopo Materada, compare il racconto drammatico La ragazza di Petrovia (che ci parla ancora di un popolo che alla fine della seconda guerra mondiale è stato costretto dagli eventi politici a lasciare casa, terra e famiglia per stabilirsi in Italia, nei “campi di raccolta” vicini a Trieste, sperando in una nuova esistenza, in mezzo a squallori e nuove discriminazioni. Protagonista del romanzo è Giustina che, in attesa di un figlio,  vivrà un amore senza speranza.), al quale segue Il bosco di acacie in cui l’autore  parla ancora dell’esodo degli italiani d’Istria offrendoci un concentrato di grande bellezza di stile e contenuto per l’azione incalzante, per i silenzi e i risvolti freudiani del protagonista quando accompagna il padre a morire in una terra che non è la sua. Nascita e morte inducono a un’analisi psicologica di raro spessore).
Nel 1969 Tomizza guadagna il Viareggio il primo premio di grosso spessore con L’albero dei sogni (personaggio principale è ancora il padre che è stato per lo scrittore una autorità alla quale aveva forse trasgredito. Quindi, per ovviare ai sensi di colpa – tema ricorrente nella scrittura tomizziana, formatasi alla scuola dell’amato Dostoevskij – lo scrittore si autoanalizza. Il racconto poggia su uno sfondo autobiografico di un autore che sente di scrivere non solo per vocazione, ma anche “per una piccola missione”.
1977 Questo è l’anno del capolavoro di Tomizza
La miglior vita, “epica della frontiera”, meritatissimo Premio Strega. Romanzo corale, cronaca attraverso gli anni, di un villaggio istriano di confine, Radovani, narrata dal sacrestano Martin Crusich che ha servito messa a sette suoi parroci. Il romanzo abbraccia uno spazio ampio, comprensivo di tutto il ‘900, in una terra mista di stirpi, dominazioni e religioni, ovvero due grandi guerre, mutamenti di nazionalità, esodi volontari o forzati, molte morti, una rivoluzione socialista, un’epidemia di vaiolo, un terremoto.”Continuavamo a trovarci in piena guerra per l’eterna questione dell’essere italiani e dell’essere slavi, quando in realtà non eravamo che bastardi – dirà il sacrestano, interpretando il pensiero dell’autore. Memorabili alcuni dei sette parroci: Don Stipe, il cappellano biondo che sogna invano una riscossa, anche religiosa, dei popoli slavi e incoraggia le nozze di Martin con Palmira. C’è il prete vessato dalla sua perpetua e quello che la vessa, il sessuofobo e – infine – don Miro che è stato partigiano con Tito, straziato da un amore pericoloso con una maestrina del villaggio, per non arrendersi,  si distrugge di vino e di cancro. Con la sua morte, Radovani, in regime socialista, non avrà più parroci. Nella deserta canonica alloggerà Martin, divenuto guardiano dei ricordi. Un modesto nonzolo[2] è dunque in grado di ricreare il passato, di rispecchiare il presente, di additare il futuro. Tomizza gli ha assegnato il  compito di fare storia con la cronaca, di estrarre la cronaca dalla storia, visualizzando la politica dei regimi, dei fascisti, dei partigiani,  del mondo ricco e povero, dei fedeli, degli agnostici, dei giovani e dei vecchi
La miglior vita, 1996, Oscar Mondadori, pp.310, Lire 13.000
Nel 1984 esce Il male viene dal Nord con radici nel passato della Controriforma.  Il capodistriano Paolo Vergerio il Giovane si sposta verso il Protestantesimo.
1986. Nel romanzo Gli sposi di via Rossetti  l’autore ricorre  ad una corrispondenza privata per narrarci di  due giovani sloveni – residenti a Trieste – terminata in tragedia con la loro morte.  Siamo nel 1944.. Trieste è chiusa nella morsa dell’occupazione tedesca e nel contempo percorsa dalla diffidenza e dall’odio che oppongono l maggioranza italiana alla minoranza slovena. Tomizza ritrova un gruppo di lettere d’amore scritte da Stanko Vuk – incarcerato per cospirazione antifascista -  alla moglie Dani, i due sposi  assassinati. L’autore  s’interroga quindi sulla qualità di quel sentimento d’amore.
Questo è un romanzo a cui sono particolarmente affezionata perché ha segnato l’inizio della mia fraterna amicizia con l’autore con cui – da quell’anno, fino alla sua morte – ho intrattenuto anche una fitta corrispondenza.  Con il suo arrivo a Badia – il 30 marzo 1987 – mi è stato affidato il compito dalla biblioteca – di fargli  da chaperonne – conducendolo a visitare i monumenti della nostra piccola città. Lunghe ore di dialogo umano e letterario hanno lasciato un segno profondo nei miei ricordi.
Gli sposi di Via Rossetti, 1986, Mondadori, pp.197, lire 18.000

I rapporti colpevoli, uscito nel 1992 , regalerà un cemento tutto speciale alla storia della nostra amicizia perché venerdì 12 marzo 1993, l’autore lo presenterà in Accademia dei Concordi a Rovigo in “tandem” col mio romanzo Hena. Secondo Zanzotto ci troviamo davanti “le pagine  più belle e rivelatrici di tutta  la sua opera”. Questo è un romanzo più che mai psicoanalitico, di autopunizione in cui passato , presente e futuro si coagulano in un unicum di rara suggestione. Un vero cocktail di dostoevskijani sensi di colpa. Siamo di fronte a una kafkiana chiamata in giudizio. Sfilano davanti ai nostri occhi varie città. Surreale, onirico e salvifico, poiché da questa scrittura l’autore si è sentito purificato.
Due enunciati capitali per penetrare nell'assunto del romanzo. Malattia e disubbidienza, dunque. Ma disubbidienza a che cosa, nei confronti di chi? A un valore sociale, morale e cattolico, innanzitutto, per cui la vita umana oltre che intoccabile è sacra Una convenzione tutto sommato abbastanza banale, che la pone a livello di quelli che antropologicamente (Malinowski) sono i bisogni o imperativi primari (la mera sopravvivenza); la crisi dell'autore-protagonista (il libro è scritto in prima persona) subentra invece dalla frustrazione dei bisogni o imperativi derivati, cioè i bisogni di libertà e di autorealizzazione.

Sono le donne della sua vita, la madre, la moglie, la figlia, che, in una fase precisa - di cui diremo -, ognuna in modo diverso, più o meno consapevolmente, limitano quei bisogni o ne impediscono la gratificazione. Donne che egli ama e verso le quali sente di avere dei doveri, cui adesso {la cinquantina, età dell'andropausa e di bilanci punto o poco rassicuranti) vorrebbe "disubbidire". Ma slacciarsene significa provare sensi di colpa e rimorsi, che bisogna far ricadere sulle donne col suo suicidio, per far sentire colpevoli loro e punirle cosi delle sue mancate gratificazioni. un suicidio, quindi, come mancanza di gratificazioni.

Ma, come accennavamo, sintomatica e pregiudiziale è la fase della vita in cui l'io narrante si trova, vita all'improvviso invasa dallo spauracchio dell'invecchiamento e della caducità fisica, della perdita del vigore giovanile, della paura della morte e/o della malattia organica debilitante e umiliante (ecco allora il suicidio come fuga da quell'insopportabile angoscia). Su questo versante il romanzo è ineluttabilmente, irrimediabilmente e archetipicamente (ma anche deliziosamente) di segno maschile. un maschio in crisi viene sezionato da Tomizza con un bisturi crudele e (auto) ironico contemporaneamente, cui non sfugge nulla dei suoi tic e nevrosi, feticci e velleità, "rapporti colpevoli". l'egoismo (la liceità delle infedeltà coniugali), l'autocommiserazione e il vittimismo, la viltà e la crudeltà (alla compagna della vita il maschio non perdona di invecchiare pure lei) , il masochismo (la fedeltà e le virtù della moglie enfatizzano le colpe del marito...), l'autismo affettivo (il crogiolamento escludente e inconcludente nel dolore di sè). Anche qui però c'è un riscatto dalla banalità, perché la crisi è pure più profondamente esistenziale (il "male di vivere" montaliano, la rassegnazione e l'inerzia dell'Emilio sveviano), vieppiù esacerbata dalla condizione di eterno "deracine",di sradicato, di inguaribile"foresto" dilaniato fra un'ltalia "estranea e incomprensibile" e un'Istria di "luoghi bastardi". Ed è solo dell'Istria, d'altronde - "questo mio ultimo villaggio dove sto cercando di sciogliere i miei nodi con carta e penna" - il paesaggio della memoria e dell'identità, nevrotizzante non-scelta, ambigua e dolorosa, che ha bisogno di continue giustificazioni e razionalizzazioni.. Tutti gli altri luoghi del romanzo o non esistono o hanno l'anonimità di stanze d'albergo, di appartamenti soffocanti, di locali pubblici qualsiasi.

Un romanzo di archetipi. Di due, il maschio in crisi e il "deracine", abbiamo appena detto Ma ce n'è un terzo, che ci sembra abbastanza nuovo nel panorama letterario italiano, ed è il tipo di donna istriana del contado, identificabile nella nonna e nella madre del narratore. Donne povere e aride come il carso da cui provengono, già fanciulle tirate su più a rimbrotti che a carezze, da genitori dispensatori più di parsimonia che di tenerezza. .Donne in continua competizione con gli altri e in primo luogo con gli uomini, volitive e forti fino alla grettezza e alla millanteria (l'autore attribuisce a loro le sue odiatissime ma insopprimibili meschinità), commedianti incallite, lacrimose a comando, pietose con se stesse, draconiane con tutti gli altri. Mogli e madri diligenti, ma insensibili, che lesinano su tutto, anche sulle manifestazioni d'affetto...

E’ romanzo di artifici. Nel primo ci si imbatte subito all'inizio, ed è quello già manzoniano (e altrui) del ritrovamento del manoscritto (qui è il fratello del suicida a trovare gli appunti). Artificio poi dell'abile gioco letterario in cui l'autore, smontando la tradizionale struttura del romanzo, man mano che si avvicina all'esito finale, lo frantuma in spezzoni sempre più brevi e schizoidi; artificio, anche, del seducente equivoco per cui vero e pseudo-autobiografismo, realtà fattuale e onirica, fantasia e incubo, vaneggiamento e lucidità, flusso di coscienza e presa diretta si rincorrono, si sovrappongono, si aggrovigliano. La disarmante sincerità di autoanalisi, la puntigliosa descrizione di particolari anche scabrosi, i giudizi perentori come schiaffi, i sentimenti riprovevoli (il desiderio di matricidio...), continuamente irretiscono il lettore, lo sconcertano tenendolo in bilico tra finzione e realtà, senza mai lasciargli discernere con certezza dove l'una finisca e incominci l'altra, ma anche senza mai fargli dubitare del!'autenticità del sentire. Un libro che non si può lasciare a metà, perché ci si sente avvinghiati dall'iridata regnatela di un percorso umano e storico con cui ognuno ha qualcosa da spartire. dubbi, incertezze, scoramenti, miserie. Un romanzo avvolgente: per l'autore un modo, a quanto pare efficace, di rintuzzare la depressione, per i lettori una delle opere migliori di Tomizza.

Proprio in occasione di una delle sue tante visite badiesi, Fulvio seduto nel nostro soggiorno con Laura – la micia Jackie accoccolata sulle sue ginocchia, - ci aveva raccontato in anteprima la trama de L’abate Roys. Uscito nel 1994 per i tipi di Bompiani.
Ricorrerà ancora a una corrispondenza privata per scrivere Franziska (1997), ispirato all’omonima slovena e all’italiano Nino che comunicano per lettera consolidando un  amore poi ostacolato dalle loro origini, dalle tradizioni e dai confini.
Per la rivista fiorentina II Portolano ho  recensito nel 1997 il volume che Fulvio mi ha fatto avere prontamente.
Recensione. Franziska di Fulvio Tomizza, Mondadori
E' fuor di dubbio che quando Tomizza - istriano di nascita e triestino d'adozione -, intinge la penna nei suoi temi di frontiera per narrare vicende di minoranze etniche che gli stanno fortemente a cuore, la sua vena di scrittore ritrova tutto lo smalto dei bei tempi, di quando con romanzi di elevato spessore quali L'albero dei sogni o La miglior vita, riceveva i premi Strega e Viareggio.
Con Franziska, sua ultima figlia letteraria, uscita per i tipi della Mondadori, lo scrittore ci offre uno struggente e delizioso ritratto di donna, ricostruito e immaginato sulle basi di un epistolario originale. Possiamo constatare come la Storia corra parallela alla vicenda privata della slovena del Carso e ci rendiamo conto, sollecitati dalla penna dell'autore, di quanto appaia ai nostri occhi maggiormente accattivante e letterariamente valida la vicenda privata dell'infelice protagonista, piuttosto che l'inevitabile cornice storica reale che fa da fondale alla narrazione.
La nascita eccezionale (con Francesco Giuseppe per padrino e la concessione in dono di mille corone, avendo visto la luce nelle prime ore del secolo ventesimo), la vita tribolata della figlia del falegname Skripac, il suo unico grande amore deluso, offrono un vigoroso pretesto a Tomizza per scandagliare con cuore sensibile l'animo femminile sul filo delle inesplicabili incongruenze della vita.
Ritorna a galla il clima, l'atmosfera in cui lo scrittore è viss
uto ed è stato
educato; dalla pagina emergono i suoi convincimenti politico-storici, la sua personale visione della vita. Appare nella pagina a linee maiuscole tutta la crudeltà del Novecento nei confronti della Slovenia - patria di Franziska -, un'etnia travagliata che solo da due anni è riuscita ad avere uno Stato. La protagonista è toccata dalle due guerre e dalla persecuzione fascista, ma noi, in quanto lettori, pur consapevoli della necessità ineluttabile di un back-ground storico, siamo soprattutto attratti dalla parte umana e sentimentale del romanzo, dall'amore che intercorre tra la giovane e il maturo (solo negli anni, purtroppo) Nino Ferrari, l'italiano di Cremona, ufficiale sul Carso e poi ingegnere a Trieste, resi emotivamente partecipi di un sentimento che si snoda difficoltoso per gli impacci di due anime e di due culture, di due mondi che, sfiorandosi, annaspano per capirsi. L'anno fatale dell'incontro è il 1918, la storia ha un andamento positivo fino al 1921, poi - con l'affermarsi del fascismo - l'incendio della casa del popolo, tutte le oppressioni storiche coincidono con i tentennamenti dell' intiepidito innamorato, un uomo amletico, indeciso, molto più borghese di quanto egli stesso pensi di essere. Nino Ferrari, esteriormente è colto, un po' fuori dalla norma, dotato di un'intelligenza sui generis, severo giudice di quella grettezza provinciale di cui in realtà è succube, e l'ultima crudele lettera alla sua sventurata donna rivela tutto il suo gelido egoismo. A Franziska crolla il mondo addosso. I passaggi psicologici che ci descrivono il dolore, la delusione, la caduta intima della protagonista, sono di raro vigore introspettivo.
Quello della giovane slovena è uno dei più bei ritratti femminili dell' attuale letteratura, dipinto con mano delicata, attenta alle sfumature, a quei sussulti del cuore che solo un grande scrittore sa cogliere e sublimare.
Franziska, 1997, Mondadori, pp.225, lire 27.000







[1] Ciaf, in lingua giuliana, talento
[2] nonzolo, sacrestano in lingua croata

domenica 17 marzo 2013

Dissolvenza


DISSOLVENZA
Ci sono voci così luminose che brillano nel buio di una stanza. Proiettano intorno a sé ventagli irregolari di luce ora più fioca ed opalescente, ora forte come un lampo improvviso, a seconda del volume che le caratterizza nel corso della conversazione: alle vocali aperte, soprattutto a quelle, corrisponde un fascio luminoso più intenso e persistente.
Ho notato questo fenomeno ottico il giorno in cui ho cominciato a sentirla al telefono, non dico ad ascoltarla, perché l'ho proprio sentita. Non avevo notato questo fenomeno al nostro primo fortuito incontro, che pure aveva già del prodigioso, perché - ancora prima di conoscere la sua persona - mi aveva colpito la sua sagoma riflessa nella vetrina del libraio sotto casa mia. All'improvviso, tra il volume SaggiProseRacconti di Virginia Woolf e un atlante aperto sul polo Sud, si era inserito il suo volto dai lineamenti irregolari ed allusivi, un viso interessante, pur non essendo bello nel senso classico, secondo i canoni della bellezza tradizionale: qualche ruga lieve contornava lo sguardo maliziosamente obliquo, le labbra rosse come il frutto del peccato, avevano sapore di provincia; guardata di profilo, mostrava un naso lievemente aquilino che regalava un contrastante tocco di nobiltà al suo volto. Da un piccolo turbante nero usciva un accenno di chioma riccia e mesciata, capelli ribelli che amavano andarsene per conto loro. Certamente, mentre io osservavo la sconosciuta, anche lei guardava me e - seppi poi - notava la mia chioma precocemente incanutita ("se sapessi come ti regala fascino!") e non restava indifferente al "lampo dei prati in primavera" - così si espresse in seguito - dei miei occhi verdi così spesso lodati dalle donne, da rendermi ormai indifferente alla loro ammirazione.
"Anche lei ama Virginia Woolf?" - mi chiese nel più naturale dei modi. Avevo fretta di correre in redazione al giornale e - seppure incuriosito da quella signora niente affatto banale - non ero disposto alpour parler, a quei discorsi che intrecciamo in treno o mentre aspettiamo il tram o durante una rapida corsa in ascensore, tanto per dire qualcosa, speranzosi in seguito di "rimorchiare": non abbordo mai sconosciute per la strada, né mi lascio abbordare. Eppure la voce mi uscì dalla gola, nonostante me stesso, lasciandomi meravigliato per primo.
"Posso offrirle un caffè?"
Non rispose nemmeno e mi prese sottobraccio, come se ci conoscessimo da sempre, come se fossimo vecchi amici che si ritrovavano, dopo una lunga pausa d'attesa.
Eppure non aveva nulla di equivoco o di pericoloso. Sentii un'immediata attrazione per lei, quando si tolse la pelliccia, all'interno del bar, e la gettò sulla spalliera di una seggiola: il suo seno forte, sottolineato dalla giacchetta blu, fermata da tre grossi bottoni, era un richiamo ancestrale, un morbido cuscino di delizie su cui avrei desiderato abbandonare subito la testa, sognando un po' di mamma e un po' di amante in un'unica edipica fantasia. Il caffè era caldo e forte, la sua voce mi entrava dentro, me ne appropriavo, prendeva spontaneamente a far parte di quell'archivio sonoro, proprietà di tutti noi, per cui ci basta quasi uno starnuto - un fulmineo eccì - di una persona nota, oppure un sintetico , per sapere subito di chi si tratta.
Scoprimmo - quasi sovrapponendo le nostre voci, nel frenetico parlare -, di avere un' origine isolana comune. Parlammo di Pirandello e Sciascia, di Tomasi di Lampedusa e di Lucio Piccolo, dell''mpanatadi agnello, delle panelle palermitane, degli arancini di riso, dell'intertestualità di Garcia Marquez. Litigammo blandamente su Proust che lei adorava e io trovavo e trovo stucchevole; ci riconciliammo sul caciocavallo ragusano e su Milano "capitale del capitale".
Era bibliotecaria in una piccola città del Veneto, per questo amava tanto i libri, almeno quanto li amo io.
Ci scambiammo i numeri di telefono. La giornata passò senza intoppi. La pagina, al giornale, mi riuscì soddisfacente per equilibrio nei contenuti e nell'eleganza grafica. Pranzai con un'amica di vecchia data, risposi a parecchie telefonate. Ricevetti rassicurante conferma che il mio ultimo saggio sarebbe uscito prima di Natale: una routine senza scossoni e senza brutte sorprese.
Le ombre della sera si coagulavano liquide ed insidiose dietro i vetri della finestra; il volto di una collega che vi si specchiava, passando, mi rimandò un rapido flash della sconosciuta con cui tanto rapidamente ero entrato nell'orbita delle "affinità elettive", quelle per cui una persona che ad altri può apparire insignificante, a noi parla un linguaggio speciale ed ineludibile, un richiamo a cui non vogliamo sottrarci.
La sera stessa la chiamai al telefono. Ero sdraiato nel divano del salotto, in penombra e avevo voglia della sua voce "interna". Notai subito quei fasci, ora sfatti in un'opalescenza che poteva accendersi in luci più intense, e ne provai un godimento interiore di rara natura. Ripensai sensualmente a quei tre bottoni sul suo petto, chiusi da un'asola che si poteva facilmente aprire.
M'invitò nel suo cottage in montagna. La raggiunsi dopo una settimana, e finalmente slacciai, non solo con la fantasia, quegli ostili bottoni, divenuti docili, sotto la stretta delle mie dita. Il paesaggio da cartolina natalizia era persino troppo oleografico per essere veramente di mio gusto: candore di neve abbagliante, caminetto acceso con fiamma purificatrice, pranzetto al lume di candela. Detesto la banalità, gli auguri di buoncompleanno, le frasi fatte, il déjà dit, lo scontato comunque.
"Preferiresti la pioggia? Una casa fredda? Un'amante che ti resiste e ti fa faticare a sedurla?"
Non le risposi. Ero comunque contento di essere lì, anche se un po' troppo avviluppato, forse, dalle sue effusioni, purtuttavia non ero scontento del farla così felice. Suvvia, devo ammetterlo, anch'io stavo bene con lei. Avevamo molte cose in comune.
Da Milano le mandai un biglietto - assieme al mio ultimo libro, odoroso di stampa fresca. "Ho sepolto il mio cuore dentro le vecchie mura" - le scrissi. Sapevo che amava Quasimodo e che avrebbe gradito il mio messaggio, non meno del libro che commentò in una dettagliata lettera in cui non sapeva più se lodare maggiormente "l'eleganza della prosa vaporosa o lo spessore dei contenuti umanissimi, per non parlare dell'originalità di orizzonti che sapevo aprire davanti agli occhi dei lettori".
Non sapeva solo coccolarmi, sapeva a sua volta scrivere, e questo me la rendeva più vicina.
Il giornale mi chiamava a gran voce. Sul tavolo mi attendeva una pila di articoli da "passare" - come diciamo noi in gergo - e un saggio irto di difficoltà, sul "caso" del "Gattopardo" da recensire. Il telefono squillava in continuazione, la segreteria era affollata di messaggi, la schiena mi faceva male, i grovigli della vita mi si abbarbicavano addosso.
Avevo voglia di stare un po' da solo e soprattutto di stare in pace.
Passarono i giorni. Anche le notti.
Feci un sogno terribile, peggio di un'allucinazione. Nel cuore della notte appresi da un quotidiano che la mia ormai conosciutissima - e da me un po' trascurata sconosciuta - era morta. Ma come? In che modo? Nel letto mi agitai febbrilmente. Mi vidi affannosamente in viaggio per andare nella sua piccola città. La corsa in macchina fu affannosa. C'era la nebbia. Un sudario felpato e inquietante rendeva evanescente la realtà intorno a me. Sembrava salire dal serpente liquido - un sinuoso canale che tagliava in due la città. Le vie erano deserte. All'improvviso vidi un corteo scuro con una bara davanti portata a spalle; nell'aria fluttuavano nastri d'argento, come virgole di luce: sopra vi si distingueva appena un'illeggibile scritta.
Mi svegliai tutto sudato. Dopotutto era stato solo un sogno. Mi tornò la voglia della sua voce luminosa, delle sue parole tenere che io non contraccambiavo mai. Che bisogno ce n'era? Se le telefonavo, non significava che la stavo pensando? Che bisogno c'era di leziose banalità? Oddio che lagna le donne con questo loro bisogno di "infiorare" tutto, di "romanticizzare" anche gli avvenimenti più naturali della vita!
Uscii fischiettando, ancora felice di avere soltanto sognato.
Nella "nostra" vetrina - intendo quella del libraio - la vidi di profilo: sulla mezza fronte i riccioli erano scompigliati in un'arruffata frangetta che la ringiovaniva, la mezza bocca, eccezionalmente senza rossetto, era atteggiata a sorriso e così l'unico occhio che mi era dato vedere, sprigionava serenità. Sollevò una mano - voltandosi di faccia - nel consueto gesto di accarezzarmi una guancia. Mi volsi per abbracciarla, ma di spalle non avevo nessuno, o meglio solo un gattino grigio stava attraversando la strada in una lenta, onirica dissolvenza.

* * *
Sono passati molti anni, ormai. Continuo la mia vita di redazione: le piccole beghe con i colleghi, qualche amore occasionale, ancora saggi pubblicati, libri altrui recensiti, viaggi tra Milano e l'isola, spicchio di "irredimibile" terra dove chiuderò i miei giorni.
Proprio ieri, quando l'imbrunire immalinconisce le luci e dilata le ombre, nell'ora in cui il passato cerca di uscire dal vaso dei nostri ricordi, rovinandoci magari il cadere del giorno, proprio ieri - dicevo -, ho risentito quella voce, o meglio la breve risata di quella mia donna conosciuta e persa nella vetrina del libraio. Tutto è nato da un'interferenza telefonica. Avevo alzato la cornetta, dopo uno squillo irregolare, gracchiante e strozzato, un suono anomalo che poteva far pensare ad un errore.
"Sono stata in centro ad acquistare una cravatta originalissima per un uomo affascinante, superspeciale in piedi e a letto, conosciuto... [e qui un sacco di cisccisczzzcisc si sostituirono alla voce]. Se la merita proprio, questa seta di Hermès, essendo un maschio di una razza ormai in estinzione".
Era proprio lei? Con chi stava parlando?
Provai un morso di gelosia, inusitato per la mia concezione di vita: ho sempre vissuto per me stesso, volando in cieli liberi, avulso da legami avvinghianti, e non ho mai preteso fedeltà dalla controparte. Che cosa mi stava succedendo? Invecchio, ho pensato. Che sia per questo - mi sono domandato anche -, che non "vedo" più quella voce, ma la sento, o meglio la odo soltanto? Che sia per questo che non proietta più per me lampi luminosi, ora intensi, ora sfocati come bagliori di luna?
Dai rumori di fondo riemerse la voce.
"Quando gliela consegnerai?"
"Stanotte. Dopo una cena al..." [ancora rumori, brusio, stridori di fondo]
Sembrava fosse lei, la mia donna di allora, sfumata nel nulla, in conversazione con un'amica. In effetti solo con una sua simile, con una donna, avrebbe potuto magnificare o denigrare il sesso opposto: quelle che stavo rubando erano confidenze del tutto femminili.
Ero sempre più curioso, avrei dato un anno di stipendio (facciamo sei mesi, visto che non mi piace sprecare), pur di conoscere l'identità di quell'uomo così speciale che stava oscurando la mia fama.
Alzai gli occhi e mi accorsi - vedendola ben inquadrata nello spazio aperto della finestra di fronte -, che a posare il ricevitore, con mossa rapida nella forcella, era una donna, che, pur notandola solo di spalle, aveva qualcosa, anzi molto di familiare. La taglia era simile a quella della donna del passato, scomparsa misteriosamente allora dal mio orizzonte, come fortuitamente sembrava ora essere riapparsa. Decisi di scendere precipitosamente le scale. Uscimmo quasi in contemporanea dai due portoni di fronte. Per mia fortuna caracollava su tacchi alti che le rallentavano il passo, portava in testa un turbantino simile a quello del giorno in cui ci eravamo conosciuti. La falcata era molle, la curva dei fianchi piena, come allora. Il ricordo del suo seno dolce mi procurò un sussulto di turbamento. Rividi la sua piccola stanza al cottage in montagna, mi tornò addosso il profumo della sua pelle d'ambra, il sapore della sua bocca, l'aroma dello champagne bevuto dalla stessa coppa.. Tutto in un lampo il tempo trascorso sgorgava fuori dalla moviola in cui mi illudevo di averlo imprigionato.
Salì rapida e leggera sopra un autobus all'angolo, un tacco ribelle le si impigliò nel predellino. Questo piccolo contrattempo mi diede modo di salire a mia volta, senza che lei si voltasse. Presi posto qualche fila più indietro, vicino a una vecchia che portava un micio tigrato dentro una gabbietta: la mia donna e il gatto camminano spesso di pari passo, pensai.
Scese dopo tre fermate, la seguii discretamente, tenendo sempre una distanza di sicurezza. Reggeva al braccio una borsetta elegante, affiancata ad un sacchetto colorato con una grande scritta centrale. Sarà la confezione con la famosa cravatta per l'uomo migliore del mondo, pensai indispettito. Entrò in un piccolo ristorante a luci complici, di quelle che attenuano le rughe in volto alle signore e rendono sfumati i numeri del conto salato, agli occhi dei loro accompagnatori. Un cameriere mi fece segno che non c'era posto. Gli allungai un bigliettone, che per magia, fece subito comparire un tavolo libero per me. Mangiai svogliato, tenendo sempre d'occhio la mia "inseguita" e il suo "specialissimo". Bevevano ridendo, spensierati. Lui le teneva una mano. Quando se la portò alle labbra per baciarla, non ne potei più, fu più forte di me. Mi avvicinai concitato al loro posto e gridai forte il nome della donna che mi aveva sostituito con un uomo che a me parve abbastanza banale. L'uomo si alzò con espressione preoccupata. La donna alzò gli occhi, più chiari di come li ricordavo, ora privi di quella tenue raggiera di rughe che mi intenerivano allora, e - con voce rattristata -, mi disse: "Sono la sorella. Spesso la gente ci confonde. Sembra che ci somigliamo molto. Lei non c'è più; è morta nel suo cottage di montagna, seduta davanti al caminetto, stava sorseggiando l'ultima coppa di champagne, mentre leggeva Dissolvenza, scritto da un giornalista che le aveva prosciugato il cuore".
Grazia Giordani

domenica 21 ottobre 2012

La "balconosa" Badia


Balconi
Come certi popoli si riconoscono di primo acchito per certi caratteri somatici o per il colore della pelle, così alcuni luoghi geografici o alcune città, hanno un loro inconfutabile biglietto da visita che è quello delle loro caratteristiche architettoniche.
Per questo motivo Carducci - innamorato di Bologna, sua città adottiva - la definiva "porticosa", creando un simpatico neologismo, atto a sottolineare la grande ricchezza di portici del capoluogo emiliano. Parafrasando il Poeta, qualcuno ha definito "balconosa" Badia, pare infatti che questa piccola citta' bagnata da Adige e Adigetto, sia ricca in maniera particolare di balconi e davanzali, veroni gentili che in primavera spesso appaiono fioriti, quasi pensili giardini.
Questa caratteristica la accomuna a Lendinara e Rovigo, pure ricche di leggiadri veroni con spalliere sempre bel lavorate, mai identici, mai monotoni, come se questi prolungamenti di dimora verso l'esterno , volessero aggiungere una nota in più, un utile ornamento alle case.
Se oggi i davanzali hanno una pura funzione estetica, un tempo - nei secoli scorsi - erano una valvola di sfogo verso l'esterno, soprattutto per il mondo femminile. Come avrebbe fatto a dialogare Giulietta con il suo Romeo, senza la complicità di un verone? Shakespeare avrebbe avuto qualche difficoltà a scrivere altrimenti la sua celebre tragedia. Le donne, fino al secolo scorso, soprattutto nei ceti elevati, uscivano meno frequentemente sole per strada e avevano così meno opportunità di incontrare corteggiatori ed innamorati. Il balcone era dunque un complice salotto all'aperto per scambiare saluti ed occhiate, era un luogo di ritrovo per "ciacole" anche rimbalzate da un verone all'altro, insomma era un tramite per socializzare, uscire, pur restando in casa, guardar fuori senza troppo compromettersi, non del tutto svelate da rampicanti fioriti o folto fogliame nei vasi.
Oggi che il costume è cambiato e le donne vivono maggiori libertà, i balconi restano anche nelle nuove costruzioni, più essenziali nella forma, meno elaborati, più sobri nell'impianto. Sono ancora aperture verso la luce dell'estate, proiezioni che interrompono la chiusura delle stanze. Forse racchiudono un sottile messaggio freudiano, un invito alla comunicazione che la terra polesana sa ancora intendere ed ascoltare, una voglia ostinata di non rompere del tutto con il passato, magari tenendosi strettamente afferrati proprio alla ringhiera di un balcone.
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 27 Dicembre 2003

sabato 13 ottobre 2012

Deliziosa serata al Caffè Letterario "Antica Rampa" di Badia



Ancora una serata molto piacevole al Caffè letterario "Antica Rampa" di Badia Polesine, organizzata dall'infaticabile Gilberto Moretti che - dall'arte, alla letteratura, passando attraverso temi anche meno impegnativi - va vivacizzando le uscite pomeridiano-serali dei veneti e non solo, coadiuvato dalla bellezza architettonica e dal retroterra storico in cui avvengono gli incontri.
Ieri sera, un piacevolissimo duetto Alberto Cristini-Marco Bottoni ha coinvolto un pubblico molto interessato e divertito dalla verve dell'artista e del poeta. L'esposizione dei quadri e delle sculture di Cristini ha fatto da policromo fondale, nella prima parte della serata, regalando ai fruitori l'illusione di viaggiare su eleganti imbarcazioni, immerse in un liquido elemento che fa sognare mari lontani, onirica proiezione dell'artista, estroso creatore della "nuoto-pittura". A questo creativo rodigino non bastano tele e pennelli. Predilige anche assemblare discipline ginnico artistiche con un piglio che sarebbe piaciuto ai futuristi, anche se il suo linguaggio, pur con qualche excursus nell'informale, ama sostare dentro un'ispirazione poetico-verista, mai fotografica, ovvero vieta riproduzione del reale.
Deliziosi i suoi bronzetti, così dinamici ed espressivi.
Marco Bottoni, pluripremiato poeta di Castelmassa (RO) - in perfetta linea con la tradizione dei medici scrittori -  ha presentato la sua silloge Regno: Animalia (Centro Studi Tindari Patti,pp.146, euro 10) con un sense of humour veramente travolgente. Sembrava di essere a teatro, coinvolti dalla sapiente ironia di questo insolito autore che sa regalare levitas anche agli argomenti più ostici e difficili.
 Interessante la premessa della sua silloge che ci conduce per mano dentro i multiformi intenti dell'autore, facendoli nostri, perché si può imparare anche sorridendo. E Bottoni ne è ben consapevole.
Un rilievo speciale merita l'atmosfera che si era creata nel corso del pomeriggio-sera. Un clima amichevole e intimista, l'ossimoro di una convivialità contagiosa come una deliziosa malattia.
Grazia Giordani

martedì 13 marzo 2012

Il destino dei Malou

Leggiamo molto coinvolti, nella bella traduzione di Federica di Lella e Maria Laura Vanorio,  ancora un romanzo americano di  Georges Simenon (Liegi, 1903-Losanna 1989). Scritto in Florida nel 1947 e stampato lo stesso anno, Il destino dei Malou (pp.200, euro18), ci viene proposto sempre da Adelphi, che dal 1985 ne cura la riedizione dell’opera omnia.  Una delle novità che troviamo in queste pagine, rispetto ad altri romanzi dell’autore, è il dualismo di interpretazione, quasi un  doublage, rispetto all’indole e al carattere del personaggio che conosciamo post mortem, il tanto chiacchierato  Eugène Malou, riguardo all’ottica e all’angolo di visuale di chi lo sta considerando.
E’ uno squallido truffatore l’affarista suicida già nelle prime battute della narrazione – oggi considerato un palazzinaro -, oppure un uomo che venuto dal niente, dalla suburra della società, si è sacrificato fino allo strazio per dare agio e benessere alla propria famiglia? A Simenon sono sempre piaciute queste contorsioni psicologiche, questo rimescolio nei meandri dell’animo,  poiché sa bene quanto sia contorta l’umanità e quanto il grigio sia più attendibile del bianco o del nero, in quanto a colore del cuore dei suoi simili.
Il romanzo si apre con una revolverata. Alle quattro e un quarto di un caliginoso novembre, in un paesino alle porte di Parigi, Eugène Malou esce da un aristocratico palazzo di rue de Moulins e si spara un colpo in faccia. Sarà accolto agonizzante nella vicina farmacia e lì chiuderà i suoi giorni, dopo terribile strazio, sotto gli occhi dei suoi compaesani che di lui solo sembrano sapere la disgrazia economica in cui è caduto, quale imprenditore edile, convinti della sua mancanza di integrità morale. Pubblica opinione fomentata dalla pessima campagna di stampa del Phare du centre, il quotidiano locale che sembra aver inzuppato il pane dentro episodi torbidi ed infamanti del passato dell’uomo che si è tolto la vita.
Tra la frotta di studenti che, in quel momento, passa casualmente per strada, c’è il diciassettenne Alain Malou che resterà per sempre vulnerato dal terribile spettacolo della morte del padre. Ora, spetta proprio a lui di comunicare in casa la notizia. Incontrerà solo finzione di dolore da parte di una madre fatua e vanesia (che, per associazione d’idee assimiliamo a Fanny Némirovsky, madre della grande Irène, tante volte protagonista dei suoi romanzi). Poco dolore anche da parte del fratello di primo letto di Alain, preso dalle sue modeste ambizioni di vita e, ancor meno, da Corine, la carnale e dissoluta sorella. Una famiglia avvelenata dai rancori che, morto Eugène, non tarda a sbranarsi, arraffando quello che può, quando ormai non vi è più danaro, nemmeno per il funerale. E Simenon è maestro nell’intingere la penna dentro la mediocrità e la bassezza di alcuni suoi personaggi. Alain, li osserva in silenzio. Si sente diverso da loro e decide, nonostante tutto, di restare in quel paese di provincia ostile, cercando la verità sul padre, scegliendosi un destino diverso. Grazie a due amici veri del padre così infangato, ricostruisce una vita fatta di espedienti e di affari al limite del reato. Ma scopre anche un padre che ha dato la propria vita per il benessere della sua famiglia, un ragazzo nato poverissimo che ha lottato per raggiungere una posizione ai piani alti. Un epilogo inconsueto per l’autore belga che ci aveva abituati ai finali cupi e tragici, perché nel giovane Alain c’è il germe del perdono e della speranza in  una vita migliore, nonostante le umiliazioni inflittegli dal crudele oscurantismo della piccola borghesia che lo attornia e non lo favorisce di certo.
Grazia Giordani


domenica 19 febbraio 2012

Una serata di grande spessore culturale al caffè letterario "Antica Rampa"



Una serata veramente di grande spessore culturale e nel contempo divulgativa in maniera intelligente, quella che l'altra sera ci ha offerto il caffè letterario "Antica Rampa " di Badia Polesine (RO) con la presentazione del volume Il Seprio nel Medioevo (Il Cerchio, pp.102, euro 18).
La storica medievista Elena Percivaldi (curatrice, fra l'altro,  del mosaico di saggi che compongono l'opera) e l'archeologo Cristiano Brandolini hanno saputo porgere all'uditorio - fra cui è figurato persino un bimbo di otto anni ! - un excursus vivace, colto e sapiente atto a sfatare i luoghi comuni fra cui brilla quello dell'oscurantismo riferito al Medioevo. La Storia, infatti, non è costituita da scompartimenti stagni, epoche indipendenti e slegate fra loro, ma è proprio dal continuun che ne possiamo evincere valenza e significato.
"Questo volume ripercorre la storia dell'antico Comitatus - prima ancora Iudiciaria  - del Serpio nel Medioevo, quando quest'area ora appartenente alla Provincia di Varese, rivestiva un ruolo politico, strategico, militare ed economico commerciale di primaria importanza. I saggi qui raccolti forniscono un quadro completo sulle vicende del Seprio e del suo centro eponimo, Castrum Sibrium, oggi parco archeologico ., ma un tempo fortezza cardine del sistema difensivo subalpino, distrutta nel 1287 da Ottone Visconti e mai più riedificata".
Nonostante il momento di crisi economica che la nostra Nazione sta attraversando, questi recuperi del nostro passato, estesi anche e soprattutto in luoghi inediti, atti a farci prendere sempre maggior consapevolezza della nostra identità e della continuità del fluire degli avvenimenti che ci hanno preceduto, dovrebbe prendere sempre più vita, rafforzato dall'impegno di studiosi come quelli coordinati da Elena Percivaldi e sottolineato dall'intuizione di un editore che sa vedere lontano come Adolfo Morganti del raffinato IL CERCHIO.
Grazia Giordani