venerdì 25 ottobre 2013

Fulvio Tomizza



Fulvio Tomizza
(1935-1999)

Immaginate un ragazzo di bell’aspetto, vagheggiato dalle mule triestine per i suoi occhi di velluto, dotati di irresistibile languore. Pensatelo sradicato, spaesato, rifugiato a Trieste,  questo avvenente ventenne che si è lasciato alle spalle la sua Istria tanto amata, dovuta abbandonare quando la sua adorata penisola istriana  è passata sotto l’amministrazione jugoslava.
Era nato nel 1935 da una famiglia della piccola borghesia a Giurizzani (Juricani in croata) dove i suoi genitori erano proprietari di piccoli appezzamenti di terreno. Precocemente dotato di senso artistico e di predisposizione alla scrittura – conseguita la maturità artistica a Capodistria – passò temporaneamente a Belgrado e a Lubiana, occupandosi di teatro e di cinema. Qui, infatti, girò come aiuto regista un film  che venne presentato al festival di Venezia.
Ma noi prendiamo a immaginarlo poco più che ventenne,  ventenne, negli anni triestini, ricongiunto alla madre, dopo la tragica morte del padre – sospettato dai soldati titini di ribellione al regime. Proprio in questi anni conosce la giovane, poco meno che coetanea Laura Levi, una signorina di buona famiglia, con cui intreccerà una delicata storia d’amore e che diventerà presto sua moglie.
Ventiduenne, nel 1957 vinse il suo primo riconoscimento importante al “Cinque Bettole” di Bordighera con tre racconti (in commissione: Giancarlo Vigorelli, Carlo Bo, Bonaventura Tecchi, Carlo Batocchi e Italo Calvino). Quegli stessi racconti d’esordio, erano stati molto lodati dal futuro suocero (quel mulo el ga ciaf[1] !)
La famiglia di Laura avrà grande importanza nella vita e nella formazione di Fulvio, molto pieno di ammirazione per l’estro artistico del suocero, musicista di valore, docente di storia della musica all’Università di Trieste.
La nostalgia per la sua terra lo spingerà a scrivere nel 1960 il suo primo romanzo di grande successo Materada  in cui narra la storia di una famiglia che – al consolidarsi del regime comunista -  la scia tutto dietro le sue spalle e parte. Si ipotizza autobiografica, almeno in parte,  questa sua opera prima, risveglierà l’interesse della critica letteraria non solo nazionale, piena di ammirazione per il valore epico del racconto di un popolo diviso alla ricerca di una nuova identità. Sarà Francesco, istriano di Materada, qui nom de plume, forse del nostro Fulvio, a decidere di abbandonare  il suo paese, strappando le radici che lo legano a una terra aspra seppure fertile che ora gli è negata e contesa. Con i nuovi trattati del 1954 la zona B dell’Istria,  in cui Materada è inclusa – viene assegnata definitivamente  alla Jugoslavia, anche se è permesso scegliere se restare o emigrare verso Trieste. In questo lacerante  scenario  storico il venticinquenne autore racconta le sorti di un popolo disorientato e straziato da rancori, odi e vendette sanguinose, registrando che in Istria – dopo un repressivo fascismo – subentrava un  radicale comunismo.

Materada, 1961, Mondadori, pp.175,lire 1.000

Tre anni dopo Materada, compare il racconto drammatico La ragazza di Petrovia (che ci parla ancora di un popolo che alla fine della seconda guerra mondiale è stato costretto dagli eventi politici a lasciare casa, terra e famiglia per stabilirsi in Italia, nei “campi di raccolta” vicini a Trieste, sperando in una nuova esistenza, in mezzo a squallori e nuove discriminazioni. Protagonista del romanzo è Giustina che, in attesa di un figlio,  vivrà un amore senza speranza.), al quale segue Il bosco di acacie in cui l’autore  parla ancora dell’esodo degli italiani d’Istria offrendoci un concentrato di grande bellezza di stile e contenuto per l’azione incalzante, per i silenzi e i risvolti freudiani del protagonista quando accompagna il padre a morire in una terra che non è la sua. Nascita e morte inducono a un’analisi psicologica di raro spessore).
Nel 1969 Tomizza guadagna il Viareggio il primo premio di grosso spessore con L’albero dei sogni (personaggio principale è ancora il padre che è stato per lo scrittore una autorità alla quale aveva forse trasgredito. Quindi, per ovviare ai sensi di colpa – tema ricorrente nella scrittura tomizziana, formatasi alla scuola dell’amato Dostoevskij – lo scrittore si autoanalizza. Il racconto poggia su uno sfondo autobiografico di un autore che sente di scrivere non solo per vocazione, ma anche “per una piccola missione”.
1977 Questo è l’anno del capolavoro di Tomizza
La miglior vita, “epica della frontiera”, meritatissimo Premio Strega. Romanzo corale, cronaca attraverso gli anni, di un villaggio istriano di confine, Radovani, narrata dal sacrestano Martin Crusich che ha servito messa a sette suoi parroci. Il romanzo abbraccia uno spazio ampio, comprensivo di tutto il ‘900, in una terra mista di stirpi, dominazioni e religioni, ovvero due grandi guerre, mutamenti di nazionalità, esodi volontari o forzati, molte morti, una rivoluzione socialista, un’epidemia di vaiolo, un terremoto.”Continuavamo a trovarci in piena guerra per l’eterna questione dell’essere italiani e dell’essere slavi, quando in realtà non eravamo che bastardi – dirà il sacrestano, interpretando il pensiero dell’autore. Memorabili alcuni dei sette parroci: Don Stipe, il cappellano biondo che sogna invano una riscossa, anche religiosa, dei popoli slavi e incoraggia le nozze di Martin con Palmira. C’è il prete vessato dalla sua perpetua e quello che la vessa, il sessuofobo e – infine – don Miro che è stato partigiano con Tito, straziato da un amore pericoloso con una maestrina del villaggio, per non arrendersi,  si distrugge di vino e di cancro. Con la sua morte, Radovani, in regime socialista, non avrà più parroci. Nella deserta canonica alloggerà Martin, divenuto guardiano dei ricordi. Un modesto nonzolo[2] è dunque in grado di ricreare il passato, di rispecchiare il presente, di additare il futuro. Tomizza gli ha assegnato il  compito di fare storia con la cronaca, di estrarre la cronaca dalla storia, visualizzando la politica dei regimi, dei fascisti, dei partigiani,  del mondo ricco e povero, dei fedeli, degli agnostici, dei giovani e dei vecchi
La miglior vita, 1996, Oscar Mondadori, pp.310, Lire 13.000
Nel 1984 esce Il male viene dal Nord con radici nel passato della Controriforma.  Il capodistriano Paolo Vergerio il Giovane si sposta verso il Protestantesimo.
1986. Nel romanzo Gli sposi di via Rossetti  l’autore ricorre  ad una corrispondenza privata per narrarci di  due giovani sloveni – residenti a Trieste – terminata in tragedia con la loro morte.  Siamo nel 1944.. Trieste è chiusa nella morsa dell’occupazione tedesca e nel contempo percorsa dalla diffidenza e dall’odio che oppongono l maggioranza italiana alla minoranza slovena. Tomizza ritrova un gruppo di lettere d’amore scritte da Stanko Vuk – incarcerato per cospirazione antifascista -  alla moglie Dani, i due sposi  assassinati. L’autore  s’interroga quindi sulla qualità di quel sentimento d’amore.
Questo è un romanzo a cui sono particolarmente affezionata perché ha segnato l’inizio della mia fraterna amicizia con l’autore con cui – da quell’anno, fino alla sua morte – ho intrattenuto anche una fitta corrispondenza.  Con il suo arrivo a Badia – il 30 marzo 1987 – mi è stato affidato il compito dalla biblioteca – di fargli  da chaperonne – conducendolo a visitare i monumenti della nostra piccola città. Lunghe ore di dialogo umano e letterario hanno lasciato un segno profondo nei miei ricordi.
Gli sposi di Via Rossetti, 1986, Mondadori, pp.197, lire 18.000

I rapporti colpevoli, uscito nel 1992 , regalerà un cemento tutto speciale alla storia della nostra amicizia perché venerdì 12 marzo 1993, l’autore lo presenterà in Accademia dei Concordi a Rovigo in “tandem” col mio romanzo Hena. Secondo Zanzotto ci troviamo davanti “le pagine  più belle e rivelatrici di tutta  la sua opera”. Questo è un romanzo più che mai psicoanalitico, di autopunizione in cui passato , presente e futuro si coagulano in un unicum di rara suggestione. Un vero cocktail di dostoevskijani sensi di colpa. Siamo di fronte a una kafkiana chiamata in giudizio. Sfilano davanti ai nostri occhi varie città. Surreale, onirico e salvifico, poiché da questa scrittura l’autore si è sentito purificato.
Due enunciati capitali per penetrare nell'assunto del romanzo. Malattia e disubbidienza, dunque. Ma disubbidienza a che cosa, nei confronti di chi? A un valore sociale, morale e cattolico, innanzitutto, per cui la vita umana oltre che intoccabile è sacra Una convenzione tutto sommato abbastanza banale, che la pone a livello di quelli che antropologicamente (Malinowski) sono i bisogni o imperativi primari (la mera sopravvivenza); la crisi dell'autore-protagonista (il libro è scritto in prima persona) subentra invece dalla frustrazione dei bisogni o imperativi derivati, cioè i bisogni di libertà e di autorealizzazione.

Sono le donne della sua vita, la madre, la moglie, la figlia, che, in una fase precisa - di cui diremo -, ognuna in modo diverso, più o meno consapevolmente, limitano quei bisogni o ne impediscono la gratificazione. Donne che egli ama e verso le quali sente di avere dei doveri, cui adesso {la cinquantina, età dell'andropausa e di bilanci punto o poco rassicuranti) vorrebbe "disubbidire". Ma slacciarsene significa provare sensi di colpa e rimorsi, che bisogna far ricadere sulle donne col suo suicidio, per far sentire colpevoli loro e punirle cosi delle sue mancate gratificazioni. un suicidio, quindi, come mancanza di gratificazioni.

Ma, come accennavamo, sintomatica e pregiudiziale è la fase della vita in cui l'io narrante si trova, vita all'improvviso invasa dallo spauracchio dell'invecchiamento e della caducità fisica, della perdita del vigore giovanile, della paura della morte e/o della malattia organica debilitante e umiliante (ecco allora il suicidio come fuga da quell'insopportabile angoscia). Su questo versante il romanzo è ineluttabilmente, irrimediabilmente e archetipicamente (ma anche deliziosamente) di segno maschile. un maschio in crisi viene sezionato da Tomizza con un bisturi crudele e (auto) ironico contemporaneamente, cui non sfugge nulla dei suoi tic e nevrosi, feticci e velleità, "rapporti colpevoli". l'egoismo (la liceità delle infedeltà coniugali), l'autocommiserazione e il vittimismo, la viltà e la crudeltà (alla compagna della vita il maschio non perdona di invecchiare pure lei) , il masochismo (la fedeltà e le virtù della moglie enfatizzano le colpe del marito...), l'autismo affettivo (il crogiolamento escludente e inconcludente nel dolore di sè). Anche qui però c'è un riscatto dalla banalità, perché la crisi è pure più profondamente esistenziale (il "male di vivere" montaliano, la rassegnazione e l'inerzia dell'Emilio sveviano), vieppiù esacerbata dalla condizione di eterno "deracine",di sradicato, di inguaribile"foresto" dilaniato fra un'ltalia "estranea e incomprensibile" e un'Istria di "luoghi bastardi". Ed è solo dell'Istria, d'altronde - "questo mio ultimo villaggio dove sto cercando di sciogliere i miei nodi con carta e penna" - il paesaggio della memoria e dell'identità, nevrotizzante non-scelta, ambigua e dolorosa, che ha bisogno di continue giustificazioni e razionalizzazioni.. Tutti gli altri luoghi del romanzo o non esistono o hanno l'anonimità di stanze d'albergo, di appartamenti soffocanti, di locali pubblici qualsiasi.

Un romanzo di archetipi. Di due, il maschio in crisi e il "deracine", abbiamo appena detto Ma ce n'è un terzo, che ci sembra abbastanza nuovo nel panorama letterario italiano, ed è il tipo di donna istriana del contado, identificabile nella nonna e nella madre del narratore. Donne povere e aride come il carso da cui provengono, già fanciulle tirate su più a rimbrotti che a carezze, da genitori dispensatori più di parsimonia che di tenerezza. .Donne in continua competizione con gli altri e in primo luogo con gli uomini, volitive e forti fino alla grettezza e alla millanteria (l'autore attribuisce a loro le sue odiatissime ma insopprimibili meschinità), commedianti incallite, lacrimose a comando, pietose con se stesse, draconiane con tutti gli altri. Mogli e madri diligenti, ma insensibili, che lesinano su tutto, anche sulle manifestazioni d'affetto...

E’ romanzo di artifici. Nel primo ci si imbatte subito all'inizio, ed è quello già manzoniano (e altrui) del ritrovamento del manoscritto (qui è il fratello del suicida a trovare gli appunti). Artificio poi dell'abile gioco letterario in cui l'autore, smontando la tradizionale struttura del romanzo, man mano che si avvicina all'esito finale, lo frantuma in spezzoni sempre più brevi e schizoidi; artificio, anche, del seducente equivoco per cui vero e pseudo-autobiografismo, realtà fattuale e onirica, fantasia e incubo, vaneggiamento e lucidità, flusso di coscienza e presa diretta si rincorrono, si sovrappongono, si aggrovigliano. La disarmante sincerità di autoanalisi, la puntigliosa descrizione di particolari anche scabrosi, i giudizi perentori come schiaffi, i sentimenti riprovevoli (il desiderio di matricidio...), continuamente irretiscono il lettore, lo sconcertano tenendolo in bilico tra finzione e realtà, senza mai lasciargli discernere con certezza dove l'una finisca e incominci l'altra, ma anche senza mai fargli dubitare del!'autenticità del sentire. Un libro che non si può lasciare a metà, perché ci si sente avvinghiati dall'iridata regnatela di un percorso umano e storico con cui ognuno ha qualcosa da spartire. dubbi, incertezze, scoramenti, miserie. Un romanzo avvolgente: per l'autore un modo, a quanto pare efficace, di rintuzzare la depressione, per i lettori una delle opere migliori di Tomizza.

Proprio in occasione di una delle sue tante visite badiesi, Fulvio seduto nel nostro soggiorno con Laura – la micia Jackie accoccolata sulle sue ginocchia, - ci aveva raccontato in anteprima la trama de L’abate Roys. Uscito nel 1994 per i tipi di Bompiani.
Ricorrerà ancora a una corrispondenza privata per scrivere Franziska (1997), ispirato all’omonima slovena e all’italiano Nino che comunicano per lettera consolidando un  amore poi ostacolato dalle loro origini, dalle tradizioni e dai confini.
Per la rivista fiorentina II Portolano ho  recensito nel 1997 il volume che Fulvio mi ha fatto avere prontamente.
Recensione. Franziska di Fulvio Tomizza, Mondadori
E' fuor di dubbio che quando Tomizza - istriano di nascita e triestino d'adozione -, intinge la penna nei suoi temi di frontiera per narrare vicende di minoranze etniche che gli stanno fortemente a cuore, la sua vena di scrittore ritrova tutto lo smalto dei bei tempi, di quando con romanzi di elevato spessore quali L'albero dei sogni o La miglior vita, riceveva i premi Strega e Viareggio.
Con Franziska, sua ultima figlia letteraria, uscita per i tipi della Mondadori, lo scrittore ci offre uno struggente e delizioso ritratto di donna, ricostruito e immaginato sulle basi di un epistolario originale. Possiamo constatare come la Storia corra parallela alla vicenda privata della slovena del Carso e ci rendiamo conto, sollecitati dalla penna dell'autore, di quanto appaia ai nostri occhi maggiormente accattivante e letterariamente valida la vicenda privata dell'infelice protagonista, piuttosto che l'inevitabile cornice storica reale che fa da fondale alla narrazione.
La nascita eccezionale (con Francesco Giuseppe per padrino e la concessione in dono di mille corone, avendo visto la luce nelle prime ore del secolo ventesimo), la vita tribolata della figlia del falegname Skripac, il suo unico grande amore deluso, offrono un vigoroso pretesto a Tomizza per scandagliare con cuore sensibile l'animo femminile sul filo delle inesplicabili incongruenze della vita.
Ritorna a galla il clima, l'atmosfera in cui lo scrittore è viss
uto ed è stato
educato; dalla pagina emergono i suoi convincimenti politico-storici, la sua personale visione della vita. Appare nella pagina a linee maiuscole tutta la crudeltà del Novecento nei confronti della Slovenia - patria di Franziska -, un'etnia travagliata che solo da due anni è riuscita ad avere uno Stato. La protagonista è toccata dalle due guerre e dalla persecuzione fascista, ma noi, in quanto lettori, pur consapevoli della necessità ineluttabile di un back-ground storico, siamo soprattutto attratti dalla parte umana e sentimentale del romanzo, dall'amore che intercorre tra la giovane e il maturo (solo negli anni, purtroppo) Nino Ferrari, l'italiano di Cremona, ufficiale sul Carso e poi ingegnere a Trieste, resi emotivamente partecipi di un sentimento che si snoda difficoltoso per gli impacci di due anime e di due culture, di due mondi che, sfiorandosi, annaspano per capirsi. L'anno fatale dell'incontro è il 1918, la storia ha un andamento positivo fino al 1921, poi - con l'affermarsi del fascismo - l'incendio della casa del popolo, tutte le oppressioni storiche coincidono con i tentennamenti dell' intiepidito innamorato, un uomo amletico, indeciso, molto più borghese di quanto egli stesso pensi di essere. Nino Ferrari, esteriormente è colto, un po' fuori dalla norma, dotato di un'intelligenza sui generis, severo giudice di quella grettezza provinciale di cui in realtà è succube, e l'ultima crudele lettera alla sua sventurata donna rivela tutto il suo gelido egoismo. A Franziska crolla il mondo addosso. I passaggi psicologici che ci descrivono il dolore, la delusione, la caduta intima della protagonista, sono di raro vigore introspettivo.
Quello della giovane slovena è uno dei più bei ritratti femminili dell' attuale letteratura, dipinto con mano delicata, attenta alle sfumature, a quei sussulti del cuore che solo un grande scrittore sa cogliere e sublimare.
Franziska, 1997, Mondadori, pp.225, lire 27.000







[1] Ciaf, in lingua giuliana, talento
[2] nonzolo, sacrestano in lingua croata